2020 12 – Brazaville in tempo di figli

Per le strade di Brazza     (in tempo di figli) 

Per loro tu sei pietra d’inciampo, per me sei la pietra angolare da cui inizia la casa.

(E. De Luca) 

Carissimi amici,

eccoci di nuovo insieme, in questo tempo strano, così ‘straordinario’ da sembrare, talora, irreale e così denso di difficoltà e di buio, che rischia, infine, di non farci nemmeno più cogliere i particolari di bellezza e i coni di luce, che pure continuano a illuminare il nostro quotidiano. Ci pensavo in questi giorni, immersa nella frenesia del lavoro, alle prese con le enormi problematiche che l’avanzare della pandemia ha aggiunto, quaggiù, alla già complessa vita della gente e con l’eco doppiamente preoccupante delle notizie che giungono dall’Italia. Quali parole nuove condividere con voi, nel tempo dell’attesa che ci separa dal Natale, che non suonino banali, scontate, persino inopportune, per molti, dopo quanto ciascuno ha visto e vissuto? Non è semplice entrare nelle vostre case e tra i vostri pensieri, senza sapere cosa stiate vivendo, quali siano i drammi, le paure, le sfide che state attraversando. Non posso, allora, che farmi dare soccorso da quanto sperimento ogni giorno, dagli incontri preziosi che ancora mi è dato di vivere, da quel filo di speranza che, nonostante tutto, ritrovo nella resilienza delle persone, dei bambini in primis, anche nel mare di disperazione che, talvolta, vorrebbe inghiottirci e sommergerci. L’avevo detto, ripartendo dopo 8 mesi di lunga e sofferta assenza: se non ritorniamo in Congo, malgrado tutto quello che quest’anno abbiamo vissuto, per condividere speranza e per continuare a mettere a disposizione tenace creatività e rinnovato impegno per questa nostra gente, meglio allora non ripartire affatto. Ed è esattamente con questo spirito che sono qui, con questo desiderio, con questa testarda ambizione di vedere ‘oltre’. È così, anche, che insieme ai bambini mi sto preparando al Natale che viene.

In molti e molte volte mi avete chiesto com’è il Natale a Brazza, come lo si vive, come lo si attende.

Natale è, a queste latitudini, soprattutto la festa dei bambini. Il giorno speciale in cui i bambini diventano ‘re’ e in cui le famiglie, dalle più povere a quelle con maggiori mezzi, fanno del loro meglio affinché i figli siano ‘al centro dell’attenzione’, siano vestiti a festa, ricevano almeno un regalo, abbiano un pranzo ricco di prelibatezze.

Natale è, quaggiù, io penso, il più potente degli ossimori della vita. Un po’ come, probabilmente, dev’esserlo stato la prima volta. Il figlio di Dio, per chi ci crede, che viene al mondo in un ricovero per animali, lontano dai centri del potere, alla periferia della storia. Se non è questo un assurdo!

Pensateci bene con me. Natale è, qui, la festa in cui i bambini sono al centro. In cui i figli sono considerati il

bene più prezioso, se non l’unico. Immaginate ora di celebrare il Natale in un Orfanotrofio. Che, non giriamoci troppo intorno, è il luogo che raccoglie e accoglie tanti di quei bambini che la storia, le occasioni, gli eventi, la disperazione hanno messo al margine. Lontano dal centro. Alla periferia, appunto. L’ossimoro più potente della vita.

Che fregandosene degli ossimori fa della periferia il centro.

Lo so che non si dovrebbe fare, che non è ‘politically correct’, che non è, forse, rispettoso da parte mia. Ma lasciate che questo Natale io possa, per una volta, provocarvi e portarvi dove magari non avevate pensato di arrivare.

Natale è la nascita di un bambino, in fondo. Il venire al mondo di un figlio.

Penso, in questi giorni, io che, purtroppo, non ho avuto grazia di essere madre, come avrei voluto che fosse mio figlio. Domanda banale e forse un poco stupida, direte voi. Sono d’accordo. Lo avrei voluto sano, avrei voluto che crescesse circondato d’amore e di bellezza, avrei voluto che fosse, se non spudoratamente felice, almeno capace di sperimentare il fremito di non trascurabili momenti di felicità. E che la vita non gli avesse risparmiato il dolore (ahimè, non si può!), ma che gli avesse dato coraggio, forza, speranza e amici sufficienti per affrontarlo. Il fatto è, madre o no, che i figli non si scelgono. Arrivano, attraversano la nostra vita, la sconvolgono, talvolta la trafiggono, la fanno essere migliore, ne sono, inevitabilmente, al centro.

Arrivo al punto, amici cari. In questo mio periferico, ossimorico, strano Natale è uno strappo alla regola che vorrei chiedervi di compiere insieme a me. Di scegliere. Impossibile, direte voi. Ne convengo. Impossibile scegliere un figlio. Ma è questo che invece vi chiedo.

160 vite (molte di più per il vero!), sono nella mia vita come la più inaspettata, incredibile, immeritata delle generazioni. E non potrei sceglierne, tra tutti, uno in particolare. Ma in questo Natale sì. Me lo concedo. Scelgo Jonathan, Ange, Joseph, Dieuvie, Prefuge, Fabien, Joel. Che nella loro faticosa situazione di disabilità in un Paese in cui il ‘diverso’, il malato è spesso etichettato come ‘folle’ o ‘stregone’ e messo dunque ai margini, hanno ancora il coraggio di sorridere, di giocare, di abbracciare, di volersi bene, di osare l’impossibile, scandalosa bellezza della vita.

Scelgo Sarah, Monica, Noblesse, Gaetan, Rochelvie. Che nella loro difficoltà di vedere, di sentire, di muoversi, di parlare, mi insegnano ogni giorno, andando a scuola o lavorando, avanzando tra pietre, fango, terra, sole, pioggia e, talvolta, sguardi d’inutile pietà, ad ascoltare quello che non si può udire, a vedere più nel profondo, a camminare verso tutto quello che ancora rimane da realizzare, a fare silenzio, prima di parlare.

Scelgo Arnaud, Merveille, Medardie, Dieuveil, Beldecia, Banzouzi, Sagesse, Beni, Beldina, Dorcas, Erivane…e qui la lista potrebbe proseguire ancora a lungo. Scelgo gli adolescenti. Con il loro magico, intricato, faticosissimo, bellissimo mondo. Non più così piccoli e ‘carini’ da poter essere presi in braccio, non ancora così grandi da poter spiccare il volo da soli. Nella terra di mezzo di una realtà che nega opportunità, scelgo loro. La migliore delle mie, delle nostre opportunità.

Scelgo chi è arrabbiato, affaticato, deluso, confuso, triste. Chi è ancora in vita e avrebbe potuto non esserlo. Scelgo chi è malato e chi crede di essere sano. Scelgo l’arrogante e il mansueto. Scelgo le ‘bolle d’ossigeno’, i determinati, gli appassionati, le ‘forze della natura’. Scelgo chi è in debito d’amore, in debito di ingegno, in debito di giaciglio, in debito di accoglienza, in debito di occasioni. Scelgo le pietre d’inciampo. In questo Natale strano, un poco pesante, irreale, che forse, chissà, vorremmo passasse in fretta, insieme  al 2020, mi permetto il lusso, io che non sono madre, di scegliere i miei ‘figli’, di metterli al centro delle più lontane periferie e di far durare questo tempo per tutto il tempo che sarà necessario alla vita per ambire, per osare, per appassionarsi, per riuscire a vedere ancora più lontano.

Mi accorgo che ci stanno tutti comodi questi 160 figli (e qualcuno di più!) nella mia personale lista delle scelte. Loro che non mi appartengono, ma sono la parte migliore di me.

In questo ossimorico, periferico, buio, faticoso, illuminato, straordinario Natale, amici miei, amici cari al nostro cuore, non manca il mio, il nostro grazie per quanto avete fatto e continuate a fare insieme a noi e per noi.

E rimane l’augurio più scomodo, ma il più vero che possiamo farvi. Scegliete. I vostri figli. Nati al centro del vostro cuore e rinati più volte alla vita grazie al vostro amore paziente. E poi scegliete di nuovo. Tutti i figli non scelti. La parte migliore di noi.

Buon Natale!

Dal centro della periferia, Paola Passera e i bambini di Brazza