2020 04 – Mozambico padre Giorgio Giboli, le comunità in pandemia

Mozambico, da Ribáuè il 23 aprile 2020.

Carissimi,     condivido con voi la situazione attuale nel nord Mozambico presso le nostre comunità parrocchiali con alcune righe messe giù alla buona.

Realtà attuali in Mozambico:

Le persone infette dal coronavirus sono, secondo le notizie ufficiali, a tutt’oggi circa una cinquantina, divise tra la zona della capitale Maputo e la regione di Cabo Delgado che è a nord di Nampula e Nacala. In Cabo Delgado è in corso pure una spietata guerriglia da parte di sedicenti guerriglieri islamisti che agiscono contro la povera gente ammazzando e bruciando le abitazioni.

Reazione della Chiesa locale.

Appena iniziati i primi casi di coronavirus, il 23 marzo la conferenza episcopale ha emanato alcune disposizioni che allertavano sulla pandemia incombente e davano norme di comportamento per prevenire il contagio: nessuna riunione, nessuna celebrazione, seguire le norme emanate dall’OMS e dalle autorità locali, ecc.

L’1 aprile il governo ha emanato lo stato di emergenza che dura fino al 30 aprile.

A livello dell’arcidiocesi di Nampula ci si è messi con impegno a diffondere materiale per aiutare la gente a capire cosa sta succedendo.

Reazione della gente.

Incredulità. Stupore. Sembra impossibile alle persone che possa succedere una cosa simile. E in tutto il mondo poi! Qui in Mozambico si è abituati a vedere ogni giorno gente morire di malaria, di colera, di tubercolosi, oltre che di aids e tutto il resto. Quando si è spiegato che il coronavirus non ha cura, in alcune zone si è corsi ai rimedi della tradizione locale, uno dei quali è stato bere acqua contenente alcuni capelli caduti da un libro sacro che uno aveva trovato… Boh! La disperazione fa fare questo e altro…

Gli ospedali in Mozambico non hanno le minime condizioni, a mio parere, per dare una mano a chi si ammala.

Reazione dei missionari e dei sacerdoti.

Sensibilizzazione delle persone attraverso fogli e opuscoli sul coronavirus. Riunioni di formazione e di approfondimento a tutti i livelli, fino a quando non sono subentrate le restrizioni dello stato di emergenza. Ora si cerca di continuare. Chi è in città tenta di usare i mezzi tecnici a disposizione, come si fa in Italia (cellulari e altro). Chi è fuori nella foresta o nella campagna cerca di accostare le persone a piccoli gruppi continuando l’informazione e l’attualizzazione.

Concretamente.

A Ribáuè la chiesa della missione non è mai stata chiusa in questo tempo. È’ sempre aperta per accogliere piccoli gruppi di persone che vogliono pregare davanti al Santissimo. Vedo soprattutto giovani che arrivano, entrano in chiesa, pregano, vengono a salutare e poi se ne vanno. Da Pasqua, su richiesta di 9 giovani (non si possono organizzare riunioni con più di 10 persone e quindi ho dovuto accettare solo 9), ho iniziato la lettura continua degli Atti degli Apostoli con loro (due ore ogni pomeriggio).

Il 23 aprile sono stato a Nampula e ho fatto fotocopiare 4 fogli di informazione e riflessione su tutto quello che sta succedendo e che andrò a distribuire agli animatori delle 16 zone in cui è divisa la missione di Ribauè. Organizzerò nei prossimi giorni dei mini incontri con loro e poi saranno loro a organizzare altri mini incontri per la gente. Nel sussidio dato c’è anche una preghiera in macua, la lingua della gente, per chiedere al Signore di liberarci da questo flagello.

In futuro.

Il nostro futuro dipende molto da quello che saranno le decisioni che il governo prenderà dopo il 30 aprile. Se si arriverà a una chiusura totale come in Italia, ci dovremo adeguare e agire di conseguenza. Aspettiamo.

Cosa insegna a me questa faticosa esperienza.

Il vescovo Oscar ci stimola tutti con questa domanda.

Mi pare di essere cresciuto un po’ di più nella dimensione della preghiera, una preghiera che deve aprirsi a tutto il mondo. Quando ho saputo che don Alberto Pini si trovava in ospedale qualche settimana fa, l’ho subito comunicato alla gente di qui che ha avuto la possibilità di conoscerlo quando è venuto a accompagnare don Filippo assieme a don Alessandro. Tutti i giorni arrivava sempre qualcuno a chiedere: “Don Alberto come sta? Digli che stiamo pregando per lui e per tutta la gente d’Italia che soffre”.

Mi pare anche di aver capito di più il dono della comunione e della fratellanza tra noi, coi confratelli di comunità religiosa, coi familiari lontani, con gli amici, col vescovo, con i vari operatori pastorali.

Che senso ha dividersi o creare discordia quando invece dobbiamo stare sempre più uniti?

Un caro saluto dal Mozambico da p. Giorgio