Carissimi tutti!
Sono andato a rivedere quando vi avevo scritto l’ultima volta e vedo che è già passato un mese… ma immagino che anche lì da voi il tempo passi alla stessa velocità! Davvero qui i giorni scorrono velocissimi, ognuno con il suo carico di umanità a volte ferita, altre volte esultante. Un po’ come la quaresima che ci ricorda la nostra fragilità ma ci invita ad alzare gli occhi, a vedere oltre, a rivalutare la nostra dignità di persone perdonate. “Faccio una cosa nuova, non ve ne accorgete?”, è l’invito di Isaia nella lettura di domani.
Ce ne accorgiamo? Questo è proprio uno dei pensieri che mi accompagnano in questo tempo. Ho trovato nei giorni scorsi una frase molto bella di una poetessa inglese, Elizabeth Barrett Browning, che riassume splendidamente quello che vorrei dirvi: “Earth’s crammed with heaven, and every common bush afire with God. But only he who sees takes off his shoes. The rest sit round and pluck blackberries” (la terra stipata di cielo, e ogni comune roveto che brucia di Dio. Ma solo chi sa vedere si toglie i calzari. Gli altri siedono attorno e colgono more). Ecco, riesco a vedere il bello, lo straordinario che Dio sta facendo sotto i miei occhi? È una sfida enorme, perché quando mi guardo attorno e vedo dolore, sconforto, spazzatura, fogne a cielo aperto, stracci, volti disfatti dall’alcool, occhi persi per il continuo sniffare la colla… beh, cogliere il Cielo in tutto questo, l’impronta di Dio, è davvero difficile. Eppure…
Eppure la resurrezione è proprio la sfida a vedere le cose in modo totalmente diverso, in una prospettiva che sulla terra nessun uomo, nessuna donna, nessuna pianificazione, nessuna statistica, nessuna ricerca avrebbe mai saputo proporre. È la Vita di Dio che sfonda nella nostra vita e ci costringe a prendere posizione, non per lottare ma per contemplare in modo nuovo quello che c’è attorno a me. Noi, poverini, continuiamo a fissarci sulle nostre porte chiuse, cercando di analizzare il più a fondo possibile perché sono chiuse e, soprattutto, cosa possiamo fare noi per aprirle. E il Risorto entra, a porte chiuse, senza nemmeno bussare, tanta è la sua voglia di donarci la sua pace e di mandarci, finalmente senza paura. Questa è la Pasqua!
E allora cerco di raccontarvi qualcuno di questi piccoli segni di Resurrezione che vediamo qui a Korogocho, in questo luogo privilegiato, senza maschere né doppi fondi; da questa prospettiva che è la vita quotidiana dei poveri fatta di lotte, pianti, ma anche di gioia grande e grande condivisione.
Qualche tempo fa sono entrato in casa di Teresia. Ero con mama Olivia, una cristiana che lavora al servizio degli ammalati, e Kevin, il prepostulante di cui vi avevo già parlato; quasi non ci stavamo, tanto la baracca era piccola. Gli occhi ci hanno messo qualche minuto per abituarsi all’oscurità, anche se fuori era pieno giorno. Teresia, un’anziana donna, era a letto, molto debole per l’età e con un dito gonfio per un’infezione ormai di qualche giorno. Attorno il niente, o quasi. Parliamo con lei e cerchiamo di convincerla a trasferirsi nella casa per anziani che c’è a Kariobangi, non lontano dalla parrocchia; rifiuta perché, dice, chi si prenderà cura dei miei due nipoti? E chi pagherà per la casa? I suoi due nipoti, lasciati dalla figlia defunta, sono due ragazzi di strada che è difficilissimo incontrare perché tornano sempre a sera tarda, quasi sempre ubriachi o “fatti” di colla; ovviamente non sarebbero in grado di prendersi cura della nonna, né hanno la minima intenzione di farlo… Eppure Teresia si preoccupa per loro. Continuiamo a parlare con lei, e tra noi per vedere cosa si può fare, quando sulla porta appare una giovane donna, una delle vicine di casa e scopriamo improvvisamente la rete di solidarietà e di cure quotidiane che va avanti ormai da tempo: le vicine la vengono a trovare, le preparano qualcosa da mangiare, addirittura si prenderanno l’onere di pagare l’affitto per il tempo che la nonna sarà ospitata nella casa per anziani. Così, senza clamori, senza annunci sui giornali, senza libri, come se davvero fosse la cosa più normale da farsi, come se fosse strano il contrario, cioè il non fare tutto questo per una vicina nel bisogno. Ecco il cambio di prospettiva: posso vedere il roveto ardente di Dio o continuare a cogliere more. Ogni messa in casa degli ammalati è uno “scontro” di questo tipo, la logica umana contro la Grazia di Dio che ostinatamente continua a chiedere di entrare da noi attraverso di noi, la nostra umanità, la nostra solidarietà, la nostra pur piccola risposta.
Ieri pomeriggio sono tornato al centro Ushirikiano (“Condivisione”), non lontano dalla nostra casa, per l’incontro con ragazzi di strada, quelli più grandi (ricordate che vi avevo accennato alla Messa di apertura con loro?). Sono arrivato un po’ in ritardo e li ho trovati già fuori, sulla strada, felici dell’incontro appena concluso, ognuno con la sua bottiglietta di colla sotto il naso. Vestiti stracciati, sporchi, occhi persi, il sacco per raccogliere le immondizie in spalla, eppure già proiettati a martedì, quando ci sarà il prossimo incontro con loro. Li ho ritrovati poi alla sera, all’ultima stazione della via Crucis, vicino ad una delle loro “basi” di ritrovo: un po’ stupiti per quello che stava accadendo (l’adorazione silenziosa della croce), qualcuno si accosta, qualcuno addirittura appoggia il sacco e si toglie il berretto in segno di rispetto, qualcun altro, nel suo stato di alienazione per la colla, vuole intonare sottovoce un canto tutto suo… Cosa vedo qui: roveto ardente o more? Là dove io vedo stracci sporchi e puzzolenti Dio vede un uomo con tutta la sua dignità, mai diminuita, men che meno persa. Non è questa la Buona Notizia?
La Via Crucis di ieri sera, per i vicoletti di Grogon, la parte più “malfamata” di Korogocho, è stata un’esperienza davvero stupenda. Già l’inizio è stato straordinario. Ci siamo ritrovati davanti al luogo dove si ritrova, tutti i lunedì, la piccola comunità cristiana dei lebbrosi, l’Ujamaa (“Comunità”); stavamo per iniziare, sotto un sole abbastanza forte, e improvvisamente si mette a piovere. C’era sole, pioggia e arcobaleno, chiaro segno della benedizione e benevolenza di Dio. Poi ci siamo incamminati, “la croce davanti e i cristiani dietro” come dicono qui, passando per i vicoletti di questo quartiere che forse non vedrà mai nessun upgrading. A volte in fila indiana perché non c’era spazio abbastanza, cercando di evitare una fogna, un rivoletto d’acqua. La gente ci guardava, a volte incuriosita, ma sempre con profondo rispetto (in Africa si rispetta la religione, si rispetta Dio, anche se non è il tuo). La Croce che passava dove la croce la si vive ogni giorno. La Croce davanti perché sicuramente il Crocifisso conosce a memoria queste stradine e angoli semibui; noi dietro, a imparare i percorsi e soprattutto lo stile di condivisione fino alla fine. Roveto ardente o more?
Martedì sera, mentre noi eravamo a Kariobangi dalle suore comboniane, è successo un fatto di cui la gente ha parlato per due giorni interi. La famiglia di un ragazzo di strada, Kirio, che conoscevamo bene, morto poco più di un mese fa, ha portato la bara (vuota) davanti alla nostra porta, chiedendo a noi di pagare il conto dell’obitorio. Un segno fortissimo per la gente di qui (non si scherza con i morti, né con quello che ha che fare con il mondo dei morti). Un gesto scandaloso per i cristiani che vi hanno letto una sfida ingiusta ai padri comboniani. Sarà quel che sarà, la nostra casa è sempre punto di riferimento per tantissimi, per richieste che ha volte sono pretese che sfiorano la violenza. Eppure ognuna di queste persone che bussa alla porta ha una richiesta, un’aspettativa che non sempre potremo soddisfare, ma che sempre cerchiamo di ascoltare. Ascoltare è già dare dignità, è elevare l’altro a interlocutore, è fargli capire che quello che ha da dire è importante. Paolo e John perdono (perdono?) le ore in questo ascolto, a qualunque ora del giorno… Cosa colgo qui, la presenza di Dio o fastidi quotidiani? Mi scaldo al fuoco del roveto ardente o raccolgo more?
E potrei continuare a lungo. Man mano che scrivo mi si aprono davanti agli occhi decine di piccole situazioni che possono sembrare insignificanti, ma che racchiudono invece – io ci credo – germi di resurrezione. Due bambini che sfrecciano sulla nuova strada asfaltata, ognuno di loro con un pattino (un roller) solo al piede; hanno trovato i due pattini nella discarica (si vede chiaramente che provengono da lì) e invece di far felice uno solo di loro, li hanno condivisi: due pattini, due piedi, due bambini felici. Oppure due squadre, una di ragazzi, l’altra di ragazze, un solo campo da calcio, quello di S. John: che si fa? Si litiga? Nemmeno a parlarne! Una squadra gioca e l’altra guarda? Ma va’! E allora? E allora si gioca tutti insieme, due palloni, due partite in contemporanea sullo stesso campo da calcio, tutti si divertono, nessuno è infastidito. Ancora: un handicappato spinge con le mani i pedali che muovono la sua carrozzella, trasformata in…taxi; dietro siede una donna che si fa trasportare alla fermata dei matatu: lei felice, lui felice, e nessuno recrimina contro un destino ingiusto.
Piccole situazioni che aprono uno squarcio di Cielo sulla Terra e che mi fanno gioire di essere qui e poter esser testimone di tutto questo. Imparo, continuo a imparare, ogni giorno, e non è retorica. Questa gente è straordinaria, a volte capocciona, a volte che non si riesce proprio a capire (ma riuscirà mai un muzungu, un bianco, a capire la testa e il cuore di un africano?), ma incredibilmente simpatica e coraggiosa.
“… sono certa che curandoci di questa forza fiduciosa,
quel che sembrava morto non è più morto,
quel che pareva perduto non è più perduto,
quel che taluni hanno dichiarato impossibile è reso chiaramente possibile,
e la terra che pareva incolta stava solo riposando
riposava e attendeva che il seme benedetto arrivasse
portato dal vento con divina velocità e fortuna.”
(Clarissa Pinkola Estes)
Yesu amefufuka, hoye! (“Gesù è risorto, hoye!”, è il grido della comunità di S. John durante la celebrazione della veglia pasquale).
Un mega abbraccio pasquale!