Carissime Amiche e Carissimi Amici,
Rompo il silenzio durato effettivamente un po’ troppo per mandarvi gli auguri di Natale e di Buon Anno da Marsabit, la missione comboniana dove mi trovo per queste feste. Situata a più di cinquecento chilometri a nord da Nairobi, immersa nel deserto, Marsabit è una piccola isola verde e quasi fredda per via delle “montagne” che la circondano. Vi abitano poco più di 5,000 persone di diverse etnie: Borana, Rendille, Gabbra, Turkana, Burji, Somali. La maggioranza religiosa è di fatto mussulmana, anche se la presenza cristiana è considerevole. Per arrivare qui ieri abbiamo viaggiato nove ore su strada asfaltata e non, ma la distanza tra Nairobi e Marsabit è molto più di questi chilometri. Si entra effettivamente in un altro mondo, così distante dalla capitale keniana che la gente di qui vi si riferisce come a un altro Kenya, come se fossero due paesi diversi. Come tutte le periferie del mondo, anche qui la presenza del governo centrale è molto affievolita e lo sviluppo, e a volte la sopravvivenza della popolazione è lasciata in mano a tante Organizzazioni Non-Governative (ONG) e alle chiese. Oggi, per esempio, con le suore di Madre Teresa, abbiamo distribuito cibo (la strenna natalizia…) a diverse famiglie bisognose della parrocchia, rigorosamente selezionate dopo visite capillari e continuate, casa per casa, guardando al bisogno e non all’appartenenza.
Mettendo insieme questa mia breve permanenza a Marsabit con le notizie di cronaca sul “terrorismo” a matrice islamica e le persecuzioni nei confronti dei cristiani in diverse parti del mondo, mi torna in mente in questi giorni una storia che il mio padre maestro, p. Francesco, raccontava spesso durante le giornate di animazione missionaria in Italia. Era la storia di un vecchietto cristiano che, ai tempi della guerra civile in Mozambico, apriva la sua casa per assistere tutti, amici e nemici. E a chi gli chiedeva stupito perché si ostinasse ad accogliere anche i nemici, lui rispondeva placidamente: “Perché noi cristiani abbiamo il Padre Nostro”.
“Padre Nostro” è soltanto un altro modo di dire “Dio-con-Noi”, Emanuele. Noi cristiani abbiamo l’Emanuele. Crediamo in un Dio che non ci lascia tanti spazi di manovra, non ci lascia “se” e “ma”, ma ci obbliga a fare come Lui ha fatto. Così, semplicemente, proprio perché Lui stesso è venuto e, dall’interno delle nostre situazioni, ci ha aperto una strada, ci ha indicato un metodo, ci ha lasciato in eredità il discorso delle Beatitudini, ci ha detto di perdonare non sette volte, ma settanta volte sette, cioè sempre. E si potrebbe continuare all’infinito.
Noi abbiamo il Padre Nostro, il Dio-con-Noi. È quello che probabilmente i primi cristiani si ripetevano a vicenda per farsi coraggio nei momenti bui delle persecuzioni romane: avevano paura, soffrivano, morivano, ma niente e nessuno li faceva cambiare nelle loro convinzioni di fede e nel loro stile di vita.
Ovviamente c’è una bella differenza tra lo scrivere queste parole nella tranquillità della mia stanza, pur in una cittadina a maggioranza mussulmana, e il viverle nelle terre irachene o siriane di oggi. È vero, io non posso decidere per nessuno, soprattutto se non vivo queste situazioni in modo diretto. Ma io scrivo queste parole non per chi, di fatto, oggi è perseguitato, troppo spesso nell’indifferenza totale non solo della galassia mussulmana, ma anche di quella dei Paesi sedicenti “cristiani”. Io le scrivo invece proprio per quei cristiani, e ancor più, per quei cattolici che, di fronte alla percossa ricevuta su una guancia, pensano subito a rappresaglie e vendette, e a pagare con la stessa moneta chi ha colpito. “Se loro non ci lasciano costruire le chiese, allora noi non gli lasciamo costruire le moschee”; “se loro ci cacciano da qui, allora noi li cacciamo da là”. Dimenticandoci che “noi cristiani abbiamo il Padre Nostro”. (E in verità ce lo dimentichiamo pure quando sacrifichiamo la messa per la gita domenicale, o quando chiudiamo due occhi su atti illeciti se possono “aiutarci un po’”, o quando fuggiamo impauriti e vergognosi dalla necessità di una testimonianza chiara e forte della nostra fede; e anche qui si potrebbe continuare all’infinito.)
Allora, io chiedo a Gesù Bambino di non portarci tanta roba inutile, né di riempirci le orecchie di tante parolone che oggi più che mai suonano vuote e generiche: amore universale, pace tra i popoli, solidarietà con tutti. Io chiedo di portarci in dono la riscoperta dei fondamenti della nostra fede, quello che ci contraddistingue dagli altri non per separarci da loro, ma per darci motivi in più per lottare e unirci a loro. Il “Padre-Nostro-Dio-con-Noi” unisce, non divide; i muri li abbatte, non li costruisce; spalanca le porte e le frontiere senza controllare passaporti e carte d’identità; ci porta all’azione e non alla devozione; ci libera la mano dal coltello per poterla stringere a ogni altro, chiunque esso sia.
Soprattutto, questo “Padre-Nostro-Dio-con-Noi” ci libera da noi stessi, dal nostro facile pessimismo (come se tutto dipendesse da noi) e dal nostro altrettanto facile ottimismo (dai, resisti che Dio ti vuole bene… e intanto io non muovo un dito per aiutarti e così rendere concreto questo Dio che ti vuole bene). Basta col mettersi al centro di tutto! Il “Padre-Nostro-Dio-con-Noi” mette il “Noi” al centro, lasciando a me e a te il compito di costruirlo questo “Noi” che è sempre molto più grande di qualunque “noi” in cui ci identifichiamo. È più grande della mia famiglia e della mia nazione, della mia religione e della mia chiesa, della mia etnia e del mio gruppo linguistico, del mio esercito e del mio partito. È un “Noi”, come direbbe Papa Francesco, che mi spinge a uscire dal “noi” che mi creo, per accogliere quello che invece il “Padre-Nostro-Dio-con-Noi” mi dona. Ecco, chiedo a Gesù Bambino di regalarci questo “Noi”, o almeno la nostalgia di questo “Noi” infinito, l’unica famiglia umana, come diceva il Concilio.
Lo scorso maggio, lo sapete, ho lasciato Korogocho e mi sono trasferito a Langata, nello scolasticato (seminario) dei Missionari Comboniani, dove accompagno i giovani nella loro tappa finale prima del sacerdozio missionario. Sono tranquillo perché, nonostante tante fatiche in questi ultimi mesi a Korogocho, il “Noi” della comunità di St. John e dei progetti continua a resistere e a crescere. Vi chiedo di continuare a sostenere sia la comunità sia i progetti e a trovare i modi e gli spazi per “entrare” in questa comunità e accoglierla nella vostra. È quello che, con tanto entusiasmo e coraggio, sta facendo il gruppo italiano “Korogocho Pamoja Tunaweza – Insieme Possiamo”: creare legami, rendendo autonoma il più possibile la gente di Korogocho, e camminando con lei. Se siete interessati, ditemelo e vi metto in contatto col gruppo.
Al tempo stesso affido alle vostre preghiere il gruppo di scolastici comboniani con cui vivo qui a Langata: aiutateli a diventare “comboniani-con-noi”, immagine fedele dell’Emanuele.
A tutti mando un grandissimo grazie per la vostra vicinanza e il vostro sostegno, tanto prezioso quanto silenzioso.
Buon Natale e Buon Anno!