Carissimi tutti,
incredibile, ma vero, mi sono preso una giornata “off”, come dicono in inglese, e mi ritrovo in casa provinciale, con un po’ di tempo per me e la prospettiva di una bella dormita ristoratrice. Dedico un po’ di questo tempo prezioso a voi tutti per raccontarvi le ultime.
Non posso nascondere che le ultime due settimane sono state davvero intense, difficili e piene di tensione. La situazione a Korogocho non è delle migliori, soprattutto la sicurezza che in questi ultimi giorni lascia davvero molto a desiderare. P. John ha cercato in tanti modi di contattare, stimolare, coscientizzare, smuovere la polizia locale, ma senza troppi risultati, almeno per il momento. Poi c’è stata una crisi dell’acqua per una tubatura rotta che hanno aggiustato soltanto l’altro ieri, dopo più di un mese. Poi la corrente che va e viene, e il programma dell’upgrading che invece non si muove proprio da dove è giunto tre mesi fa… Ho la netta sensazione, in frangenti come questi, che davvero questa gente sia abbandonata a se stessa, colpevolizzata per il posto dove abita, per la sua storia spesso disgraziata e senza uscita, per la disonestà di solo alcuni dei suoi membri. Lasciata a se stessa, ignorata… E mi chiedo: se anche la chiesa la ignorasse? Se anche la chiesa avesse deciso di abbandonarla, lasciando o mai entrando in questo luogo che è Korogocho? E ringrazio il Signore che, anche se tra mille difficoltà, siamo qui. Non i comboniani, ma la Chiesa dei Santi di Dio che è in Korogocho.
Ma questa settimana tesa e difficile è terminata oggi con un esplosione di gioia e un grosso “grazie” a Dio e a tanta altra gente comune e straordinaria. Vi parlo di Rose, Pauline, Susan, Agnes e Esther. Cinque donne (alcune poco più che ragazze) di Korogocho, o meglio di Grogon, la zona più malfamata, approdate a Kibiko il 15 giugno per iniziare un’avventura che nessuna di loro e nessuno di noi sapeva dove le avrebbe portate. Già, perché se il buongiorno si vede dal mattino… Pauline racconta: “Del giorno che sono arrivata a Kibiko non ricordo assolutamente nulla tanto ero ubriaca. Ho parlato con i bambini, ci siamo presentati, ma il giorno dopo non conoscevo più nessuno, non ricordavo nulla… La mattina della partenza da Korogocho avevo 70 scellini in tasca e me li sono bevuti tutti, pensando poi di andare a dormire, rinchiudermi in casa per sfuggire alla partenza. Ma mi sono ubriacata e a casa non ci sono mai arrivata, quindi mi hanno trovata e caricata sull’auto per Kibiko”.
Oggi la gente di Korogocho, soprattutto le vecchie “amicizie” di Grogon e del famoso bar “Milango Tatu” (Le Tre Porte), guardavano queste cinque donne con occhi stupiti, increduli per quello che si trovavano davanti; una zia di Esther, che non vedeva la nipote da mesi, è scoppiata a piangere dalla gioia quando ha visto la “nuova” Esther.
Sì, oggi Rose, Esther, Susan, Pauline e Agnes sono persone nuove. All’inizio della Messa, quando normalmente gli ospiti presenti nella grande chiesa-anfiteatro vengono accolti dalla comunità, loro cinque hanno titubato un po’ sul da farsi: “Ci alziamo o no? Siamo ospiti o no?”. Il dilemma rivela il cammino fatto: sono quelle di prima, eppure sono persone nuove con una nuova dignità, una nuova coscienza di sé e della realtà, un nuovo senso di responsabilità, soprattutto per quelle di loro che, oltre che donne, sono anche mamme.
Il cammino è stato lungo, difficile, pieno di insidie e tentazioni di mollare. Una donna della comunità cristiana di Kibiko, presente alla festa di oggi a Korogocho, ha detto: “Cambiare una donna è molto più difficile che cambiare un uomo. Bisogna cambiare prima la testa e poi il cuore.” Non è stato facile. Anastacia, la coordinatrice di Kibiko, con Anthony, hanno fatto un lavoro straordinario di pazienza e tenacia, coadiuvati da tutti gli altri assistenti sociali che lavorano a Kibiko e a Korogocho. Anche loro sono gente comune e straordinaria, gente che crede fermamente in quello che fa, e nella possibilità concreta di una Korogocho nuova.
Oggi, durante l’omelia, ho chiesto alla gente di St. John: “Chi ha fatto tutto questo lavoro (del cambiamento di queste cinque donne)?”, e ovviamente la risposta è stata: “Dio”. E io, tra lo stupore generale, ho detto “No”. E ho provato a spiegare che Dio, sì, lavora, ma lo fa sempre e solo attraverso il lavoro quotidiano, tenace, spesso difficile di tanta gente comune e straordinaria. Il cambiamento delle cinque donne di Korogocho-Kibiko è stato reso possibile innanzitutto da loro stesse, dalla loro decisione, anche se presa sotto i fumi dell’alcool, di provare a cambiare; poi dagli assistenti sociali di Koch e Kibiko, dal loro lavoro paziente, fatto di infiniti colloqui, piccoli attenzioni, tensioni nascoste, o a volte palesi, e una grande, straordinaria fiducia in ognuna di queste cinque donne; e infine dalla comunità di St. John, che passo dopo passo, si sta accorgendo di questi progetti e del bene che le fanno, e se ne sta appropriando, sostenendoli con preghiere e attenzioni, e fornendo la gente necessaria a farli andare avanti (tutti gli operatori sociali che lavorano nei nostri progetti provengono e appartengono alla comunità di St. John). E come può Dio non essere felice e fiero di questo cammino, di questa gente, di queste figlie che erano perse, morte, e ora sono tornate in vita?
Rose, Susan, Agnes, Esther e Pauline. Cinque persone su centoventimila abitanti di Korogocho… Tante o poche? Non importa, sono cinque, sono loro, sono cinque vite ritrovate. I loro bambini hanno ritrovato le loro mamme, le loro mamme hanno ritrovato le loro figlie (Rose ha ritrovato la mamma dopo più di cinque anni di assenza da casa… la mamma credeva fosse morta, e se l’è vista riapparire a casa, così, all’improvviso…). Chi salva una vita, salva il mondo intero, dice il Talmud. E Luca, nella sua parabola, dice: “E iniziarono a far festa”.
Ma il Vangelo della figlia perduta termina con il tentativo della Madre misericordiosa di convincere la sorella maggiore ad entrare a far festa. Luca non dice se il tentativo ha avuto successo, lascia decidere a noi. Siamo noi che dobbiamo dire, adesso, se crediamo nella possibilità di questi cambiamenti, se crediamo nella bontà intrinseca delle persone con cui abbiamo a che fare. Vedere la sorella che torna a casa dopo aver dissipato l’eredità e quasi buttato la propria vita alle ortiche non basta; bisogna entrare a far festa, bisogna ritessere le relazioni perdute, reiniziare il dialogo, ritrovarsi come fratelli e sorelle.
Rose, Susa, Agnes, Esther e Pauline sono tornate. La comunità di St. John ha fatto festa, le ha riconosciute e accolte come sue figlie e sorelle, e adesso inizia con loro un altro tratto di cammino, anche questo duro, lungo e tortuoso: il cammino di tornare ad essere una comunità vera.
Voi, dalla lontana Italia, siete pronte e pronti ad entrare a far festa? Credete anche voi alla dignità indissolubile di ogni persona, anche la più disgraziata, la più perduta? Avete anche voi la pazienza di cercarla, questa persone, accompagnarla, servirla, scuoterla, per farle ritrovare la sua dignità, riammirare la sua bellezza, riassaporare l’intimità della sua famiglia?
Intanto un altro mattone della nuova Korogocho è stato messo. E se Korogocho diventa un po’ più nuova, lo diventa il mondo intero.
Un abbraccio