“Non si sta in silenzio passivamente, ma aspettando.
L’attesa è un atteggiamento fecondo, sveglio e vigilante.
Il silenzio ci può narrare qualcosa.
Stare in silenzio dovrebbe essere un atteggiamento di tutti i giorni,
non solo dei giorni solenni”
(Antonietta Potente)
L’attesa è un atteggiamento fecondo, sveglio e vigilante.
Il silenzio ci può narrare qualcosa.
Stare in silenzio dovrebbe essere un atteggiamento di tutti i giorni,
non solo dei giorni solenni”
(Antonietta Potente)
Carissimi tutti,
è il giorno prima della Viglia di Natale e non posso lasciar passare questi giorni senza farmi vivo e condividere con voi il mio e nostro cammino e l’attesa che ormai è al suo apice. Vi penso, soprattutto in questi giorni, e vi immagino indaffarati come sempre negli ultimi giorni prima di ogni festa. Di certo non sarò io a venirvi a dire che state sbagliando, che da voi (in Italia e in Europa) è tutto finto, che il Natale vero si è perso… onestamente, detto tra noi, non ci credo. Ho passato Natali bellissimi in Polonia (e quanto mi manca quell’atmosfera!) e anche se, sì, c’era la corsa nei negozi, c’era però anche moltissimo di intimità familiare, di desiderio di riconciliazione, di gusto di ritrovarsi insieme godendo dell’essere insieme e, almeno per quel giorno, per quelle feste, provare a vivere in modo diverso. Poi tutto torna alla normalità, com’è giusto che sia. E come è inevitabile. Quindi la prima cosa che voglio dirvi, anzi augurarvi, è di non lasciarvi prendere da nessun pessimismo, né tanto meno da inutili e nocivi sensi di colpa: vivete questi giorni nella festa, nella gioia, ringraziando Dio per quello che vi dà. E se la gioia di questa festa sarà lo stimolo per fare qualcosa di bello durante tutto l’anno prossimo, tanto meglio!
Dicendovi questo lo dico anche a me stesso, e lo dico perché in questi giorni leggo tante cose, tanti auguri che vengono dal cosiddetto Nord del mondo, e mi paiono tutti permeati di un gran pessimismo, pieni appunto di frustrazione, sensi di colpa (anche questi comunque sempre un po’ narcisisti…) e di accuse tanto facili quanto sbagliate. Il celebrare diventa allora uno sforzo, perché come posso celebrare nella gioia e nella semplicità se guardo sempre nel giardino del vicino? Se non so più apprezzare anche quel poco (ma è poi davvero poco?) che ho, che abbiamo? Le persone che ci conoscono e tengono contatti con noi qui a Korogocho sono tante, sono belle, sono brave e coraggiose, e non abitano sulla Luna, ma proprio in quel famigerato Nord del mondo. La presenza di p. Paolo in Italia durante l’estate l’ha e ci ha messo in contatto con tantissime persone straordinarie, bambini, giovani e anziani, gruppi e associazioni, comuni e scuole, che davvero sentono la sfida (ognuno al suo livello, ognuno secondo quanto il Signore gli dà di capire in questo momento) di un mondo che può essere diverso. “Dobbiamo domandarci non solo se un altro mondo è possibile, ma se lo vogliamo”, scrive Antonietta Potente (tutte le citazioni sono tratte dal suo bellissimo libretto “La fede. Semplicemente appoggiarsi alla profondità della vita”). E io credo che ci sia al mondo – grazie a Dio! – tantissima gente che lo vuole e ci crede.
Ma che strada percorrere per arrivare a mettere almeno un altro piccolo mattoncino di questo mondo diverso? Ecco che allora viene Dio in persona, squarcia i cieli e scende tra noi. Non lo fa per risolvere un’emergenza, nemmeno per sbrigare una faccenda spinosa, tanto meno per tirarci le orecchie per il compito non fatto. Lo fa semplicemente perché vuole metter su casa con noi. Pazientemente. “In questo momento c’è bisogno infatti di gente che con molta pazienza continui a costruire relazioni nuove e nonviolente. E le persone nonviolente sono persone comunitarie”.
L’anno scorso, di questi tempi mi trasferivo in pianta stabile a Korogocho. Subito, o quasi, capii che l’essere paziente sarebbe stata una grande sfida per me, comboniano lombardo iper-attivo. Capivo allora la pazienza come qualcosa che dovevo imparare (sic!) per poter inserirmi gradualmente in questo nuovo mondo che il Signore mi stava dando. Ora, dopo un anno, comprendo la pazienza in altro modo: è il camminare con l’altro al suo passo; accettare di fermarsi, anche di tornare indietro, perché il suo passo non è il mio e il mio sicuramente non è il suo. È accettare l’apparente sconfitta, che poi sconfitta non è, ma semplicemente il risultato di un ritmo diverso fatto su percorsi non programmati. Se una cosa non la si fa subito e con successo, la vedo come una sconfitta; qui invece imparo che quella cosa la si può fare anche in più tempo, anzi la si deve fare in più tempo. Dio si fa uno di noi e inizia a camminare con noi; non risolve subito tutto con il suo tocco di Dio, ma semplicemente si mette al nostro fianco, pazientemente. Si sarà anche stancato qualche volta Gesù, avrà pur sbottato contro la cocciutaggine dei suoi discepoli, si sarà pure chiesto alla sera, prima di addormentarsi, “ma chi me lo fa fare?”: eppure non ha mollato, non ha cambiato strada, è arrivato fino in fondo. Per noi. Con noi.
Cerco di spiegarmi con un esempio di vita, la vita di Rose, una delle donne che a settembre ha terminato il suo periodo di riabilitazione dall’alcolismo. Lasciato Kibiko, è tornata da sua madre, ma lì ci è rimasta poco; alla fine è tornata a Korogocho, a nostra insaputa, ma a Korogocho, si sa, non ci sono segreti, qualunque cosa accada alla fine si viene a sapere. L’abbiamo cercata (gli operatori sociali del progetto), l’abbiamo trovata e dato che c’era di mezzo un uomo e un bambino in arrivo, abbiamo coinvolto la famiglia, come è di dovere qui in Africa (uno non può iniziare ad abitare con una donna così, semplicemente, ma ci deve essere il coinvolgimento e l’assenso delle famiglie). Abbiamo proposto a Rose una casa di accoglienza per donne in difficoltà e lei ha accettato. Ci è rimasta fino a giovedì scorso quando abbiamo saputo che era di nuovo a Korogocho (il fascino irresistibile di Korogocho!). Dopo esserci consultati con gli operatori sociali, l’ho invitata a venire a parlare, ed è venuta, sabato pomeriggio. Non era tornata a Korogocho per il richiamo dell’alcool o degli amici, ma semplicemente perché in quella casa di accoglienza il cibo era poco e le sue richieste di aiuto a noi erano rimaste inascoltate; semplicemente aveva paura di essere abbandonata ancora una volta, lasciata sola con tutte le sue preoccupazioni e paure. Ad un certo punto mi ha chiesto: “Ma dopo la nascita del mio bambino, la mia vita come sarà?”, e poi, quasi di seguito: “E a gennaio chi pagherà la scuola di Agiza (la sua bimba più grande)?”. Ho sentito in queste domande tutta la sua paura, la sua fatica di portare pesi troppo grandi, di guardare il futuro sapendo di non avere il minimo di forze necessarie per affrontarlo, di sentire ancora una volta la minaccia di cadere o, peggio, di essere lasciata sola. Ho fatto silenzio un attimo, le ho chiesto scusa, perché sapevo che negli ultimi tempi per le tantissime cose in testa, l’avevo effettivamente trascurata, e poi le ho detto: “Rose, noi siamo qui, non ti lasciamo. Non preoccuparti perché se una strada si chiude, ne troveremo un altra”. Si è tranquillizzata, è tornata poi alla casa di accoglienza dove starà fino ad almeno tre mesi dopo la nascita del bimbo. Per quella notte di sabato una nostra cristiana, Jane, si è offerta di accoglierla e aiutarla a fare la spesa di alcune cose che le servivano: così, con molta semplicità e naturalezza, come dev’essere l’accoglienza vera. Per Rose e il suo bambino, quella notte, c’è stato un posto dove andare. Credo che Maria, la mamma di Gesù, si sia fatta la stessa domanda di Rose: “Ma dopo la nascita, la mia vita come sarà?”.
Rose sta camminando, ce la sta mettendo tutta, ma lo fa ad un ritmo e con dei passi che non sono i miei, probabilmente non sono quelli che avevamo programmato insieme. I programmi saltano sempre di fronte alla vita vera che è molto più creativa e non può essere inscatolata in nessun modo. Rose mi ha insegnato a dare un valore vero, reale alla relazione umana, a prendere sul serio le paure, sue e mie, i tentennamenti, e anche le richieste più concrete, come lo sono il sapone per lavarsi, la crema per il corpo, e la cura per il suo bambino che nascerà tra un mese.
Credo che Gesù sia venuto proprio a insegnarci questo, a mostrarcelo dal vivo: l’importanza assoluta della persona che ho di fronte in quel momento, presa nella sua interezza, integralità, senza tagliare niente, senza dare nulla per scontato, già acquisito, senza pensare superbamente che questo o quel dettaglio è inutile: cioè che è un dettaglio per me può essere vita per l’altro. Antonietta Potente scrive che quando qualcosa si rompe (la vita di un’alcolizzata, per esempio), la cosa più importante è quello che nasce. Io mi ostino a cercare di riemettere insieme i cocci, e impreco contro il fato malvagio che ha causato il disastro, senza accorgermi che proprio da lì sta nascendo qualcosa di nuovo, di ancora più bello, sicuramente di diverso. A Korogocho tutti sanno chi era Rose; nessuno però ancora sa chi sarà Rose tra un mese (il tempo per la nascita del suo bambino), o tra un anno.
Sono piccole storie che danno una piccola luce, forse non ancora sufficiente a vederci chiaro o ad avere risposte precise, ma che sa aprire un cammino. Come Giovanni Battista, che dalla prigione sentiva dei primi miracoli del Messia, chiedo umilmente: “Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?”. Se sei tu il Messia, Signore, perché non vediamo chiaro? Perché tutto non si risolve, perché ci sono ancora problemi e incertezze?
Tutti sappiamo com’è stato questo anno che finisce, conosciamo tutti le nostre ferite, i nostri problemi, le tensioni che ci accompagnano quotidianamente, i sogni spezzati e quelli abbandonati; il coraggio che ci manca per fare i passi necessari, le paure egoistiche che ci bloccano, i sensi di colpa; la frustrazione per le tante promesse fatte e non mantenute, la rabbia verso coloro che dovrebbero essere responsabili e non lo sono. Conosciamo abbastanza bene i giochi di potere, le sottigliezze ideologiche di coloro che vogliono mantenere il mondo così com’è e i loro tentativi di dire che il bianco è nero e il nero è diventato bianco. Vediamo ogni giorno con i nostri occhi il crollo di ogni senso morale e civico, la politica serva del denaro, e la Chiesa pure. E aspettiamo un miracolo che, guarda un po’, proprio non arriva. Ma “non si può andare avanti per delusioni… Vorremmo risposte dogmatiche e sicure, perché pensiamo che ci siano dovute, nella politica e nella Chiesa. Invece la fede creativa è un atteggiamento mistico, perché cerca un contatto con quello che ancora non sa e non ha visto”.
Anche il Natale, la festa più bella, non porta nessuna happy end da bel sogno americano, tutto poi torna come prima, senonché il cuore è cambiato. “Dio nasce in un paese lontano, in condizioni di disagio e gli unici che se ne accorgono sono quelli che mangiano pane (poco) e disagio una volta al giorno. Tornano pieni di gioia al loro insopportabile lavoro, i pastori; nessun bel finale: l’odore di sterco è lo stesso, il freddo è ancora pungente. Il loro cuore è cambiato” (Paolo Curtaz). Dio (Dio!) sceglie un’altra strada. La Parola di Dio che si fa carne non dà soluzioni, ma genera stupore; non dice tutto, ma invita a camminare, ascoltandoci e accogliendoci. “Vogliamo stupirci o semplicemente cercare delle conferme?”.
Anche questo, proprio questo è il mio augurio a tutti voi: che il vostro e mio cuore possa essere cambiato da questo avvenimento così incredibile, così inaudito, così sorprendente. Che possiamo essere sufficientemente umili per riconoscerlo e accoglierlo. Che possiamo tornare alla nostra quotidianità complessa e difficile con il cuore gonfio di gioia, “glorificando e lodando Dio per tutto quello che abbiamo visto e udito, come ci era stato detto” (Luca 2,20). E che questo continui non un’ora, non un giorno, ma un anno intero. Allora sarà veramente un anno di Grazia del Signore.
Dicendovi questo lo dico anche a me stesso, e lo dico perché in questi giorni leggo tante cose, tanti auguri che vengono dal cosiddetto Nord del mondo, e mi paiono tutti permeati di un gran pessimismo, pieni appunto di frustrazione, sensi di colpa (anche questi comunque sempre un po’ narcisisti…) e di accuse tanto facili quanto sbagliate. Il celebrare diventa allora uno sforzo, perché come posso celebrare nella gioia e nella semplicità se guardo sempre nel giardino del vicino? Se non so più apprezzare anche quel poco (ma è poi davvero poco?) che ho, che abbiamo? Le persone che ci conoscono e tengono contatti con noi qui a Korogocho sono tante, sono belle, sono brave e coraggiose, e non abitano sulla Luna, ma proprio in quel famigerato Nord del mondo. La presenza di p. Paolo in Italia durante l’estate l’ha e ci ha messo in contatto con tantissime persone straordinarie, bambini, giovani e anziani, gruppi e associazioni, comuni e scuole, che davvero sentono la sfida (ognuno al suo livello, ognuno secondo quanto il Signore gli dà di capire in questo momento) di un mondo che può essere diverso. “Dobbiamo domandarci non solo se un altro mondo è possibile, ma se lo vogliamo”, scrive Antonietta Potente (tutte le citazioni sono tratte dal suo bellissimo libretto “La fede. Semplicemente appoggiarsi alla profondità della vita”). E io credo che ci sia al mondo – grazie a Dio! – tantissima gente che lo vuole e ci crede.
Ma che strada percorrere per arrivare a mettere almeno un altro piccolo mattoncino di questo mondo diverso? Ecco che allora viene Dio in persona, squarcia i cieli e scende tra noi. Non lo fa per risolvere un’emergenza, nemmeno per sbrigare una faccenda spinosa, tanto meno per tirarci le orecchie per il compito non fatto. Lo fa semplicemente perché vuole metter su casa con noi. Pazientemente. “In questo momento c’è bisogno infatti di gente che con molta pazienza continui a costruire relazioni nuove e nonviolente. E le persone nonviolente sono persone comunitarie”.
L’anno scorso, di questi tempi mi trasferivo in pianta stabile a Korogocho. Subito, o quasi, capii che l’essere paziente sarebbe stata una grande sfida per me, comboniano lombardo iper-attivo. Capivo allora la pazienza come qualcosa che dovevo imparare (sic!) per poter inserirmi gradualmente in questo nuovo mondo che il Signore mi stava dando. Ora, dopo un anno, comprendo la pazienza in altro modo: è il camminare con l’altro al suo passo; accettare di fermarsi, anche di tornare indietro, perché il suo passo non è il mio e il mio sicuramente non è il suo. È accettare l’apparente sconfitta, che poi sconfitta non è, ma semplicemente il risultato di un ritmo diverso fatto su percorsi non programmati. Se una cosa non la si fa subito e con successo, la vedo come una sconfitta; qui invece imparo che quella cosa la si può fare anche in più tempo, anzi la si deve fare in più tempo. Dio si fa uno di noi e inizia a camminare con noi; non risolve subito tutto con il suo tocco di Dio, ma semplicemente si mette al nostro fianco, pazientemente. Si sarà anche stancato qualche volta Gesù, avrà pur sbottato contro la cocciutaggine dei suoi discepoli, si sarà pure chiesto alla sera, prima di addormentarsi, “ma chi me lo fa fare?”: eppure non ha mollato, non ha cambiato strada, è arrivato fino in fondo. Per noi. Con noi.
Cerco di spiegarmi con un esempio di vita, la vita di Rose, una delle donne che a settembre ha terminato il suo periodo di riabilitazione dall’alcolismo. Lasciato Kibiko, è tornata da sua madre, ma lì ci è rimasta poco; alla fine è tornata a Korogocho, a nostra insaputa, ma a Korogocho, si sa, non ci sono segreti, qualunque cosa accada alla fine si viene a sapere. L’abbiamo cercata (gli operatori sociali del progetto), l’abbiamo trovata e dato che c’era di mezzo un uomo e un bambino in arrivo, abbiamo coinvolto la famiglia, come è di dovere qui in Africa (uno non può iniziare ad abitare con una donna così, semplicemente, ma ci deve essere il coinvolgimento e l’assenso delle famiglie). Abbiamo proposto a Rose una casa di accoglienza per donne in difficoltà e lei ha accettato. Ci è rimasta fino a giovedì scorso quando abbiamo saputo che era di nuovo a Korogocho (il fascino irresistibile di Korogocho!). Dopo esserci consultati con gli operatori sociali, l’ho invitata a venire a parlare, ed è venuta, sabato pomeriggio. Non era tornata a Korogocho per il richiamo dell’alcool o degli amici, ma semplicemente perché in quella casa di accoglienza il cibo era poco e le sue richieste di aiuto a noi erano rimaste inascoltate; semplicemente aveva paura di essere abbandonata ancora una volta, lasciata sola con tutte le sue preoccupazioni e paure. Ad un certo punto mi ha chiesto: “Ma dopo la nascita del mio bambino, la mia vita come sarà?”, e poi, quasi di seguito: “E a gennaio chi pagherà la scuola di Agiza (la sua bimba più grande)?”. Ho sentito in queste domande tutta la sua paura, la sua fatica di portare pesi troppo grandi, di guardare il futuro sapendo di non avere il minimo di forze necessarie per affrontarlo, di sentire ancora una volta la minaccia di cadere o, peggio, di essere lasciata sola. Ho fatto silenzio un attimo, le ho chiesto scusa, perché sapevo che negli ultimi tempi per le tantissime cose in testa, l’avevo effettivamente trascurata, e poi le ho detto: “Rose, noi siamo qui, non ti lasciamo. Non preoccuparti perché se una strada si chiude, ne troveremo un altra”. Si è tranquillizzata, è tornata poi alla casa di accoglienza dove starà fino ad almeno tre mesi dopo la nascita del bimbo. Per quella notte di sabato una nostra cristiana, Jane, si è offerta di accoglierla e aiutarla a fare la spesa di alcune cose che le servivano: così, con molta semplicità e naturalezza, come dev’essere l’accoglienza vera. Per Rose e il suo bambino, quella notte, c’è stato un posto dove andare. Credo che Maria, la mamma di Gesù, si sia fatta la stessa domanda di Rose: “Ma dopo la nascita, la mia vita come sarà?”.
Rose sta camminando, ce la sta mettendo tutta, ma lo fa ad un ritmo e con dei passi che non sono i miei, probabilmente non sono quelli che avevamo programmato insieme. I programmi saltano sempre di fronte alla vita vera che è molto più creativa e non può essere inscatolata in nessun modo. Rose mi ha insegnato a dare un valore vero, reale alla relazione umana, a prendere sul serio le paure, sue e mie, i tentennamenti, e anche le richieste più concrete, come lo sono il sapone per lavarsi, la crema per il corpo, e la cura per il suo bambino che nascerà tra un mese.
Credo che Gesù sia venuto proprio a insegnarci questo, a mostrarcelo dal vivo: l’importanza assoluta della persona che ho di fronte in quel momento, presa nella sua interezza, integralità, senza tagliare niente, senza dare nulla per scontato, già acquisito, senza pensare superbamente che questo o quel dettaglio è inutile: cioè che è un dettaglio per me può essere vita per l’altro. Antonietta Potente scrive che quando qualcosa si rompe (la vita di un’alcolizzata, per esempio), la cosa più importante è quello che nasce. Io mi ostino a cercare di riemettere insieme i cocci, e impreco contro il fato malvagio che ha causato il disastro, senza accorgermi che proprio da lì sta nascendo qualcosa di nuovo, di ancora più bello, sicuramente di diverso. A Korogocho tutti sanno chi era Rose; nessuno però ancora sa chi sarà Rose tra un mese (il tempo per la nascita del suo bambino), o tra un anno.
Sono piccole storie che danno una piccola luce, forse non ancora sufficiente a vederci chiaro o ad avere risposte precise, ma che sa aprire un cammino. Come Giovanni Battista, che dalla prigione sentiva dei primi miracoli del Messia, chiedo umilmente: “Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?”. Se sei tu il Messia, Signore, perché non vediamo chiaro? Perché tutto non si risolve, perché ci sono ancora problemi e incertezze?
Tutti sappiamo com’è stato questo anno che finisce, conosciamo tutti le nostre ferite, i nostri problemi, le tensioni che ci accompagnano quotidianamente, i sogni spezzati e quelli abbandonati; il coraggio che ci manca per fare i passi necessari, le paure egoistiche che ci bloccano, i sensi di colpa; la frustrazione per le tante promesse fatte e non mantenute, la rabbia verso coloro che dovrebbero essere responsabili e non lo sono. Conosciamo abbastanza bene i giochi di potere, le sottigliezze ideologiche di coloro che vogliono mantenere il mondo così com’è e i loro tentativi di dire che il bianco è nero e il nero è diventato bianco. Vediamo ogni giorno con i nostri occhi il crollo di ogni senso morale e civico, la politica serva del denaro, e la Chiesa pure. E aspettiamo un miracolo che, guarda un po’, proprio non arriva. Ma “non si può andare avanti per delusioni… Vorremmo risposte dogmatiche e sicure, perché pensiamo che ci siano dovute, nella politica e nella Chiesa. Invece la fede creativa è un atteggiamento mistico, perché cerca un contatto con quello che ancora non sa e non ha visto”.
Anche il Natale, la festa più bella, non porta nessuna happy end da bel sogno americano, tutto poi torna come prima, senonché il cuore è cambiato. “Dio nasce in un paese lontano, in condizioni di disagio e gli unici che se ne accorgono sono quelli che mangiano pane (poco) e disagio una volta al giorno. Tornano pieni di gioia al loro insopportabile lavoro, i pastori; nessun bel finale: l’odore di sterco è lo stesso, il freddo è ancora pungente. Il loro cuore è cambiato” (Paolo Curtaz). Dio (Dio!) sceglie un’altra strada. La Parola di Dio che si fa carne non dà soluzioni, ma genera stupore; non dice tutto, ma invita a camminare, ascoltandoci e accogliendoci. “Vogliamo stupirci o semplicemente cercare delle conferme?”.
Anche questo, proprio questo è il mio augurio a tutti voi: che il vostro e mio cuore possa essere cambiato da questo avvenimento così incredibile, così inaudito, così sorprendente. Che possiamo essere sufficientemente umili per riconoscerlo e accoglierlo. Che possiamo tornare alla nostra quotidianità complessa e difficile con il cuore gonfio di gioia, “glorificando e lodando Dio per tutto quello che abbiamo visto e udito, come ci era stato detto” (Luca 2,20). E che questo continui non un’ora, non un giorno, ma un anno intero. Allora sarà veramente un anno di Grazia del Signore.