Prima di andare a letto mi ritrovo, stasera, davanti all’icona che p. Fulvio mi ha dipinto e regalato prima della partenza per il Bangladesh: Gesù e il buon ladrone. Dipinte a lato le parole: “Oggi sarai con me in paradiso”. Mi piace tanto perché mi ci ritrovo. Nel ladrone, intendo, e nel fascino straordinario della promessa di Gesù: cosa sarebbe della nostra vita senza la fede in quella futura?
E’ qui che termino la giornata. Gli orientali lo chiamano l’angolo della bellezza. Quello che io so è che l’anima ha bisogno di fermarsi e di ritrovarsi in uno sguardo. Cosa resta di oggi? Cosa rimane dei gesti, dei propositi, dei desideri, dei tentativi e degli slanci? Ci sono stati, o tutto è scivolato via senza attrito, senza convinzione? Sono più le cose riuscite o i fiaschi? Cosa resta della vita, un frammento dopo l’altro, i giorni che si sommano, quando può spezzarsi improvvisamente e presentare il conto? Sarei pronto? Me lo chiedo, mentre faccio istintivamente di no con la testa. Ecco perché il buon ladrone è la mia prima speranza.
La seconda sono i ragazzi, la mia scuola quotidiana di ascesi umana e spirituale: sono loro che mi fanno crescere e mi ricordano, concretamente, la pazienza di Dio con me. Prendi qualche giorno fa, per esempio. Durante una discussione con i più grandi di decima, per la terza volta in pochi giorni mi sono sentito ripetere: “Lei non capisce”. Senza nessuna intenzione di offendermi, rimarcavano solo quello che, a parer loro, era palese: per ragioni linguistiche o culturali – vai tu a sapere – io non capivo. A freddo riconosco che avevano ragione. Ma sul momento mi sono sentito ferito, m’è sembrato troppo e me ne sono andato arrabbiato, non senza aver alzato la voce.
Sono riuscito a tenere il muso, in un’interpretazione da Oscar, per tre giorni. Il guaio però è che non era da Vangelo, così alla fine ho mandato il mio orgoglio e la mia dignità di educatore a quel paese, che tornassero il più tardi possibile. Guai a lasciarsi fregare dall’orgoglio: “Che cosa importa? Amarti importa!”. Non so più quanti anni fa ho imparato questa frase e non so più quante volte mi ha aiutato ad uscire dalle sabbie mobili del calcolo umano. Cosa importa far valere le proprie ragioni, vere o presunte, restare stizziti e offesi, coccolare il proprio io ferito, se poi non amo?
Mi sono seduto con loro e ho chiesto semplicemente e sinceramente scusa. Ho chiesto pazienza con me, perché lingua e cultura possono essere un ostacolo e perché un aspetto del mio carattere – qui ormai lo sanno anche i sassi – mi porta a reagire prima ancora di aver capito bene i termini della questione, nonostante i tentativi di correggermi. Il risultato è che il rapporto con loro è cresciuto, così la stima e l’affetto. Polpa, mica cotica: abbassarsi e chiedere scusa ha pagato, ancora una volta. L’aspetto culturale resta non solo una fatica, ma anche, spesso, una sorpresa. Il loro mondo interiore, la psicologia, il modo di manifestare o no le emozioni, sono terre che ancora tento di esplorare senza capirne i confini e le ampiezze. Anni fa giudicavo con una certa nettezza e negatività (tipica dei nuovi arrivati), quella che per me era una mancanza di sensibilità. Adesso mi guarderei bene dal farlo. Non tutti abbiamo lo stesso modo di trasmettere emozioni o di lasciar filtrare il vissuto. E il fatto di comunicarli a fatica non significa che non ci siano.
La conferma mi è arrivata, in duplice copia, pochi giorni fa in due chiacchierate che mi hanno dato una gioia profonda. Tajel è un diciottenne santal. Pur senza avere grandi numeri, scolasticamente parlando, si è impegnato sodo e ha ottenuto ottimi risultati, tanto da meritarsi la borsa di studio dell’ostello. Non solo. L’ho visto maturare in modo evidente, nonostante non sia certo uno che ami mettersi in mostra. Ma tante cose, dall’atteggiamento ai gesti, mi hanno fatto vedere che è cresciuto. Una sera mi ha raccontato un episodio di un anno fa, forse il seme di questa maturazione. Tornato a casa per le vacanze di Natale, lo raggiunge la notizia che il parroco arriverà per dare il Battesimo a diverse famiglie del villaggio. Un evento atteso per anni, forse una decina, tanto che Tajel, sulle prime, non ci crede: “Altre volte era successo che arrivasse la voce e poi, invece, niente”. Stavolta però accade, il Battesimo è dato davvero. Mi dice Tajel con un sorriso largo e le lacrime che vengono giù allegre anche loro: “Dopo il Battesimo non riuscivo a crederci. Per una settimana sono rimasto stupito e felice”. Gioia e stupore sono ancora così forti da emozionarlo di nuovo dopo un anno, al solo rivivere il fatto. Eppure, per un anno, non una parola, non una condivisione. Conosco adolescenti italiani che ne avrebbero fatto un manifesto, lo avrebbero comunicato subito, smanettando sul cellulare. Lui no, ha tenuto dentro tutto, e non solo perché gli manca il cellulare.
Grande Tajel! Emoziona anche me vederlo così felice e penso al Battesimo e a dove sia finita la consapevolezza, l’entusiasmo, la commozione per questo dono immenso in me, in tanti cristiani. Non passano che pochi giorni ed è Shumon stavolta, a condividere altri doni, ma anche lui non subito: due esperienze accadute durante le ultime vacanze, tre mesi fa. Unico figlio maschio di una vedova, Shumon passa le vacanze lavorando sui trattori che caricano sabbia dal fiume. Paga giornaliera per 10 ore di lavoro: 90 taka, poco meno di un euro. Verso le due del pomeriggio, con gli altri lavoratori sosta per il pranzo in posti lungo la strada, dove per poche taka si può mangiare su una panca e sotto un tetto. Un giorno arriva una donna a chiedere la carità: in braccio tiene un piccolo e un altro lo ha per mano. Nessuno la degna d’uno sguardo. Shumon, senza troppo pensarci, le cede metà del suo pranzo, riso e verdura. Un musulmano, seduto lì vicino, gli chiede: “Perché lo hai fatto?”. Shumon non risponde e la cosa finisce lì.
Qualche giorno dopo, altro posto dove mangiare e altri poveri. Questa volta è una ragazzina, anche lei ovviamente con fratellini a carico. Sul collo porta ancora fresca una lunga ferita che cerca di nascondere con un lembo del sari. Shumon la accosta e comincia a parlarle, le chiede cosa sia successo. Storie di ordinaria violenza, le ferite non sono solo esteriori. La rivede due giorni più tardi e dopo averci parlato ancora un po’, le lascia sfilare nella mano 45 taka, metà della sua paga. Lei si stupisce, vorrebbe rifiutare. Infine gli domanda: “Sei cristiano?”. “Perché me lo chiedi?”, le dice Shumon che stavolta trova qualcosa da ribadire. Si sente rispondere: “Perché siete voi che vi comportate così”.
Shumon, mentre parla, sprizza una contentezza che solo l’imbarazzo riesce a velare. Il pudore del bene. “Si ricorda qualche mese fa, quando ci ha proposto di vivere quella frase di Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”? Allora non la compresi sul serio. Adesso mi pare di aver capito per la prima volta cosa significa”.
Fioretti di un ventenne, metà oraon e metà santal, prove tecniche riuscite di radicalità evangelica di una freschezza e di una bellezza disarmanti. Una vita cristiana, la mia, che non provochi domande (“Perché lo hai fatto?”, “Sei cristiano?”), può davvero dirsi tale? Ad arrossire stavolta sono io, mentre con gli occhi torno allo sguardo dell’icona.
I conti, alla fine della giornata di oggi e di quella di sempre, li farà Lui. Quel che ci sarà da pagare pagherò, sperando di strappare un biglietto di entrata, anche in ultimo, purché si passi. Stasera ho soprattutto gratitudine da offrire, non solo sconti da chiedere. E mi ripeto: cosa abbiamo di più bello e grande da dare alla gente, ai poveri, più del cibo e dei vestiti, di scuole e di ospedali, pure necessari, se non il Signore Gesù? Senza, tutto il resto è fuffa.