Carissimi,
eccomi di nuovo, questa volta per raccontarvi di come abbiamo vissuto il Triduo Pasquale a Korogocho, e di come stiamo cercando di convivere con questa novità esplosiva che è la resurrezione. Sì perché noi tutti dobbiamo davvero imparare a fare i conti non con la sofferenza, che conosciamo fin troppo bene, ma con la resurrezione, che è un cammino che ci si apre davanti e comprendiamo solo giorno dopo giorno, quasi a tentoni. Come i discepoli, come discepoli.
Passione, morte e resurrezione a Korogocho, e in ogni altra parte del mondo. Lo stesso mistero.
Tutto è cominciato alla domenica delle palme con la lunga processione dalla zona di Lucky Summer fino alla chiesa di St. John. Come al solito la gente arriva “a tappe” (gli orari, in Africa, sono sempre qualcosa di molto relativo), ognuno con il suo ramo di palma. La processione passa attraverso diverse zone di Korogocho, ci fermiamo per sette tappe, ognuna guidata da diverse jumuiya (piccole comuntà cristiane). Ogni volta c’è un momento di ringraziamento per quanto sta cambiando sotto i nostri occhi, poi una preghiera di intercessione. La gente, come vi avevo già detto altre volte, è molto concreta, quindi ringrazia per i lampioni che sono apparsi ai bordi della strada (ma ancora non in funzione), per la strada stessa che migliora (quasi) giorno dopo giorno, per una briciolo di maggior sicurezza… Insomma tutte cose che toccano la vita concreta e quotidiana. Poi arriviamo a St. John e continuiamo la messa della passione del Signore, e si crea un clima di maggior raccoglimento: la gente sente molto la celebrazione della passione!
Il mercoledì santo, alla sera, abbiamo una catechesi sui giorni del Triduo e della Pasqua. P. Paolo spiega in vari modi il significato della passione, della croce, la Via Crucis… Al momento delle domande, qualcuno chiede: “Ma perché, mentre in altre chiese alla via crucis, la gente porta una croce piccola, noi qui a St. John ne portiamo una grandissima (quasi grandezza naturale) e pesantissima?”. Domanda che riguarda sì la catechesi, ma che di fatto tocca direttamente la nostra vita qui a Korogocho: perché noi portiamo una croce così grande? Già, perché? “Croce” è una delle parole che meglio definiscono Korogocho e i troppi slum simili sparsi in Africa e nel mondo, insieme a “ingiustizia”. È una situazione profondamente ingiusta, che balza agli occhi subito, vivendoci dentro, e che appare in tutto il suo stridore non appena se ne esce e si passa per i quartieri esclusivi delle zone residenziali di Nairobi. Pochi chilometri, anni luce di distanza… perché? Perché noi dobbiamo portare una croce così grande? Guardiamo sì alla Pasqua, ma non possiamo dimenticare questa enorme croce, e non possiamo evitare di darle un nome. Turoldo scriveva che è troppo facile credere al mattino di Pasqua…
Alla messa del giovedì santo c’è stata una sorpresa. P. Paolo ha lanciato l’idea, sulla quale ci siamo confrontati tra noi padri prima, e poi con i leaders delle piccole comunità cristiane. Invece di fare la solita lavanda dei piedi, secondo le prescrizioni canoniche vaticane (dodici uomini, scelti in precedenza… possibilmente con i piedi già lavati per non creare disagi al povero sacerdote…), terminata la lettura dello stupendo racconto di Giovanni, ci siamo tolti le casule e ci siamo messi a lavare i piedi alla gente a casaccio, senza preavviso… Dovevate vedere lo stupore sui volti di queste persone, quasi a voler dire: “ma proprio a me?…”. Qualche piccola resistenza, come Pietro, ma poi un abbandonarsi a questo gesto così semplice e così dirompente. Avevamo anche lasciato davanti all’altare altri tre catini, sperando che qualcuno cogliesse il messaggio e si buttasse anche lui o lei in questa imitazione di Cristo-Servo. Due cristiani l’hanno capito e l’hanno fatto. L’esempio lasciato da Gesù non è solo per il giovedì santo, e men che meno è solo per il prete! I commenti del giorno dopo della gente ci rassicuravano sul fatto che avevamo colto nel segno, e che questo gesto della lavanda dei piedi (sporchi) aveva toccato nel profondo tanti di loro.
Poi al venerdì santo, a partire dalle otto del mattino, la grande adorazione della croce, a turni, per gruppi di piccoli comunità cristiane. Canti, preghiere di intercessione, silenzio… tanta gente arriva e semplicemente di prostra sulla croce, più che davanti alla croce: raffigurazione perfetta di quello che ha fatto il Crocifisso che ha preso “su di sé” tutte le sofferenze, i pianti, gli stress, la desolazione di chi sente, anche solo per un momento, di non farcela più. A mezzogiorno ci ritroviamo nella zona di Nyayo, attorno all’enorme croce, e iniziamo la Via Crucis per le strade di Korogocho. La croce è davvero pesante e bisogna portarla insieme, aiutandosi a vicenda. Ancora una volta la Croce sfila davanti a coloro che la conoscono fin troppo bene. Gesù è “l’uomo dei dolori che ben conosce il patire”, dice Isaia, e potrei facilmente sostituire il Suo nome con tanti nomi di persone di qui che conosciamo bene… Eppure quello che colpisce qui, ma credo in ogni parte del mondo dove c’è gente che soffre veramente, è la dignità nel soffrire, la forza nel portarla ogni giorno questa croce immensa e pesantissima, il coraggio di rialzarsi ogni volta, anche se con sempre più fatica… Quando arriviamo a St. John continuiamo con la liturgia della Passione del Signore: la lettura della passione (mimata dal gruppo dei giovani), la preghiera universale, l’adorazione della croce. Non c’è bisogno di tante spiegazioni, la gente sa.
Il sabato santo è passato come dev’essere passato, nell’attesa, nel silenzio, “non succede niente”. Solo alla sera, alle diciotto, ogni piccola comunità cristiana si riunisce per bere insieme il tè della riconciliazione. Anche noi ci ritroviamo, con gli studenti comboniani Kifle, Paolo e Eduardo, e i tre prepostulanti, Leonard, Kevin e George, che abitano a Korogocho. Anche noi celebriamo, preghiamo e ringraziamo, e poi facciamo un po’ di festa con tanto di pastasciutta, cavoli, uova, formaggio grana (sic!), mango… Poi alle otto ci si ritrova a St. John: le jumuiya fanno il loro ingresso e a poco a poco il cortile si riempie. C’è già odore di festa, già incontenibile. Iniziamo con il grande fuoco acceso dai giovani al grido di “Libertà!”, poi il cero pasquale, simbolo di Cristo Risorto. Improvvisamente sento che il coro ha già intonato l’Alleluia, prima ancora dell’inno pasquale: “No!”, dico (sono molto geloso della liturgia della veglia pasquale, lo confesso), “è troppo presto!”. Una cristiana si gira verso di me e candidamente mi dice: “A Korogocho il Signore risorge prima!”. E io mi dico: “sta’ zitto e impara!” Già, perché se è vero che a Korogocho, e in tantissimi altri posti al mondo, la gente deve portare una croce immensa e pesantissima, più pesante di tante altre, è anche vero che a Korogocho, e in tantissimi altri posti al mondo, Gesù risorge prima, ha proprio fretta di venir fuori da quella tomba e dare a tutti la sua Vita. E allora al diavolo gli schemi, la forma, l’etichetta, è tutta un’esplosione di gioia incontenibile, indescrivibile, prima al Gloria, e poi a ogni canto della messa, poi ai battesimi (87), poi ad ogni momento della festa che segue la messa e che dura fino all’alba. Ogni gruppo etnico si cimenta nei “suoi” canti che davanti all’altare diventano di tutti: tutti cantano, tutti ballano, tutti lodano, tutti ringraziano. Finalmente un momento in cui si può deporre la croce immensa e pesantissima e si può finalmente gustare la Vita nella sua pienezza.
Al mattino di Pasqua, io celebro la prima messa, mentre Paolo e John celebrano la seconda, con altri 17 battesimi di bambini. E la festa continua.
Il lunedì di Pasqua è un altro momento di grazia. Dopo l’unica messa della giornata, io, Paolo e John ci dividiamo e, accompagnati dai leaders delle piccole comunità cristiane, andiamo a benedire le case in tre villaggi di Korogocho: Grogon, Gitathru e Highridge. E ancora una volta accade lo stesso prodigio, croce e resurrezione si mischiano, sofferenza e gioia si intersecano. Entrare nelle case a Korogocho, soprattutto quelle di questi tre villaggi, è sempre una sfida grande perchè si scoprono davvero situazioni assurde. Eppure la gente è strafelice del fatto che siamo venuti a benedire proprio la loro baracca, che in questo momento, come per magia (il tocco di Dio!), non è più baracca o catapecchia, ma diventa casa vera e propria. Portare la benedizione di Gesù Risorto a questa gente, in questo posto, è qualcosa di straordinario, di cui mi e ci sentiamo sempre profondamente indegni. Benedire, “dire bene” di quello che vediamo, anche se apparentemente quello che vediamo ha ancora tutti i segni della croce grandissima e pesantissima. Eppure … lì c’è Vita!
E da quel momento, dopo la celebrazione della Pasqua, ogni giorno è un invito a convivere con la resurrezione, a vederne i segni, seppur piccoli. Oggi, per esempio, ne ho visto uno straordinario, che non era piccolo per niente. A mezzogiorno sono invitato da p. John ad un incontro con i giovani di Gitathuru. Cosa c’è di particolare?, vi chiederete. Questi giovani, uomini e donne, sono quelli che spesso derubano la gente sulla strada e causano insicurezza nella zona. L’incontro serve a creare un gruppo che possa pensare, proporre e realizzare insieme alternative. È convocato da p. John e Amhed, il leader dei giovani della zona all’interno del Comitato dei Residenti, mussulmano. Vi partecipano circa una quarantina di giovani. Chiediamo quali sono i problemi maggiori che li portano poi a diventare ladri, danno quasi tutti la stessa risposta: non abbiamo lavoro, stiamo con le mani in mano tutto il giorno. L’incontro procede, se ne programma un altro, preceduto però da incontri di area dove ognuno sarà invitato a mettere sul piatto problemi e proposte. Tutti sono d’accordo, si apre la speranza di fare qualcosa, di uscire dalla strada, di una vita nuova (resurrezione!). Al termine Amhed fa una preghiera, la fa per tutti e tutti rispondono, mussulmani e cristiani. A Korogocho tutti, mussulmani e cristiani, chiamano Dio con lo stesso nome: “Mungu”. Altro segno di resurrezione, di vita nuova senza divisioni religiose: tutti chiamano Mungu, e tutti rispondono. Anche Dio.
Termino qui. Vado a celebrare una messa da un’ammalata e ad amministrarle il battesimo. Non ha potuto essere presente alla notte di Pasqua, la battezziamo oggi, nella sua casa, alla presenza della sua piccola comunità cristiana. Paolo è a Kibiko a seguire il progetto dei bambini di strada e degli alcolisti che cercano anch’essi la loro resurrezione. John sta seguendo le innumerevoli attività del Kutoka Network, la rete di collegamento delle parrocchie negli slum che porta avanti, tra l’altro, la campagna contro la discarica di Dandora, tentativo di resurrezione per tanti per i quali, per ora, la discarica è solo una grande tomba.
Dio continua a spargere i suoi sassolini bianchi sulla nostra strada, indicatori della Vita nuova che ci ha già data. A noi il coraggio di cercarli, vederli, seguirli, senza raccoglierli però, perché possano indicare la strada anche ad altri.
Un abbraccio