Carissimi,
ringrazio di cuore tutti coloro che mi hanno scritto in queste ultime settimane e chiedo perdono per le mie risposte un po’ sbrigative. Non mi è davvero possibile rispondere a tutti e mi dispiace. In questa mail provo a raccogliere un po’ di quello che sto vivendo.
Sono appena tornato da una piccola zona della nostra parroccia che si chiama Arboleda. La famiglia che questa sera si è incaricata di preparare per la celebrazione ci aspetta sotto un piccolo portico al lato della strada sterrata. Un tavolo, alcune sedie, una candela. Un gruppo di bambini gioca con i cani della strada e i moto-taxi arrancano sulla strada sconnessa per riportare a casa chi rientra da scuola o dal collegio. Mentre aspettiamo che la gente arrivi per la Messa ci fermiamo un po’ a chiacchierare. Si presentano due ragazze che non ho mai visto. Abitano qui da poco, arrivano dalla Cordigliera e per anni hanno frequentato l’oratorio organizzato dai preti italiani dell’Operazione Mato Grosso. Si commuovono a sapere che pure io conosco padre Ugo e padre Lorenzo.
Intanto sono arrivate una decina di persone e decidiamo di iniziare la celebrazione. Dalla borsa che mi ha regalato la Giuli prendo il camice e mentre me lo infilo rivedo due macchie che mi porto dietro dalla Settimana Santa e che – nonostante l’insistenza delle suore – ho deciso di tenermi addosso almeno fino alla Pentecoste.
Sono macchie di terra e di cera. Sono macchie che raccolgono molto di quello che ho vissuto in questi primi mesi a Carabayllo.
La terra è quella di San Juan de Vilca della sera del Giovedì Santo quando abbiamo fatto memoria del gesto della lavanda dei piedi. La piccola comunità non ha una cappellina e si incontra sotto un tetto intrecciato di canne messo a disposizione dalla municipalità. Come in molte case non c’è un pavimento e i pali che sorreggono la copertura appoggiano direttamente sulla terra. I bimbi del catechismo, ai quali abbiamo lavato i piedi, sono arrivati in infradito e il lavaggio non è stato solo simbolico… Concluso il momento tanto atteso dai bimbi, la Messa prosegue. A momento dell’offertorio mi accorgo di avere il camice sporco della terra dei piedi di quei bimbi e ripenso al grembiule che il Maestro si era messo in vita per asciugare i piedoni dei suoi amici… Poi guardo un po’ più in giù, ai miei piedi bianchi da italiano nordico, zozzi della stessa terra…
Questo è quello che sto cercando di vivere: stare con i piedi nella stessa terra della mia comunità, scendere in strada, stare dove la gente cammina, si incontra, sta, vive, compra, mangia… Sempre sarò straniero: la mia pelle chiara, i miei occhi verdi e il mio terribile castillano lo sveleranno subito. Straniero sì, mi dico, ma mai estraneo! Ci provo.
La cera è quella del cero pasquale di Villa Cruz della notte della Veglia Pasquale. Questa comunità ha costruito la sua cappella su una rotonda stradale, a fianco della trafficatissima Panamericana. E’ bello avere una cappella all’incrocio di più strade, un punto di svolta e di scelta. Certo: il rumore del traffico è fastidioso e a volte sembra che alcuni immensi camion siano intenzionati a parcheggiare tra l’altare e l’ambone… Però è bello stare lì, insieme, con quella piccola fiamma che brucia e si consuma sul cero pasquale, segno del Cristo Risorto.
Questo è quello che desidero: stare come una piccola fiamma all’incrocio delle strade degli uomini per annunciare che quella tomba è vuota, che Gesù è vivo, che la morte non è l’ultima parola.
Rileggo tutto. Forse mi sono dilungato un po’…. La prossima volta sarò più breve, promesso. Allego una foto con il mio amico David al Pronoì (asilo) di Pancha Paula: trenta bimbi da mattina a sera senza acquedotto e fognature, con un tetto mezzo rotto di lamiere e un pavimento di terra battuta, ma allegria e sorrisi che allargano il cuore…
Un abbraccio.
don Robi