Rientro verso casa dopo una celebrazione nella zona di Santa Teresa. Ormai sono alcune settimane che non vediamo il sole. Dietro alle nuvole c’è, ci fidiamo che sia rimasto lì. La strada è un disastro, ovunque stanno scavando per interrare le tubature dell’acqua e le fognature. Ivan, che è molto più attento di me, dice che in alcuni punti hanno già scavato e ritappato almeno cinque volte…
Sulla jeep ascolto un vecchio un cd di Guccini che mi sono portato dall’Italia e intanto mi passano davanti agli occhi molti volti incontrati in questi ultimi giorni.
Imparo a stare, a non avere fretta, ad ascoltare le parole e i silenzi, a non fare domande.
Imparo a vivere una dimensione del tempo tutta nuova. Ripenso spesso alle parole sagge di Savio: “Noi il tempo lo riempiamo, loro invece lo vivono.”
E ci provo, pure io, a viverlo senza riempirlo, a non fare il manager, a “perdere tempo” per accogliere ciò che nessuna impeccabile efficienza avrebbe mai saputo regalarmi.
Una confessione nell’ombra umida di un portico di canne intrecciate.
Il sorriso della piccola Cony che mi salta addosso quando entro nella casa della sua nonna.
Una carezza di una vecchietta che parla solo quechua.
Una scodella di brodo caldo intorno a un tavolo fatto da cassette di frutta.
Mentre i pensieri si rincorrono sono arrivato a San Pedro. Svolto a sinistra prima della piazza e rallento per non riempire di polvere la carne alla brace che una signora cucina e vende ai ragazzi che escono da scuola. Un gruppo di cani si contende un osso e tre ragazzine armeggiano con un cellulare.
La casa di Carabayllo è tutta buia. Umberto e Ivan non sono ancora rientrati. Nella mia camera sistemo la valigetta con le cose della Messa e, prima di dimenticarmi, ritrascrivo due numeri di telefono sull’agenda. Il primo è di Luz, una signora che è arrivata da poco e vuole benedire la casa nuova. Arriva dalla cordigliera con gli anziani genitori e mi dice che sta facendo tanta fatica ad abituarsi a vivere qui. Il secondo è di Maria e di Marino. Il mese scorso è morta la loro unica figlia. Stava male da qualche giorno e l’hanno portata ad un pronto soccorso. Il medico di turno dice che non è nulla, che solo deve mangiare un po’ più di carne e non lamentarsi troppo. Passano due settimane e Betty non riesce a deglutire nulla. Per la terza volta la portano al pronto soccorso e viene immediatamente internata. Dopo due giorni i suoi occhi neri si spengono e i suoi vent’anni gridano ingiustizia e scandalo.
Mi metto in ginocchio davanti alla Croce che il vescovo Diego ci ha consegnato il giorno del mandato e accendo una piccola candela. Il piccolo inginocchiatoio è un regalo di un amico di ritorno da Taizè e il tappeto colorato raffigura il calendario Atzeco.
Consegno tutto a Lui: le persone, le situazioni, i drammi che stiamo incontrando. Chiedo che la mia vita parli di Lui, che nelle mie parole risuoni qualcosa di Lui. Apro il breviario per pregare i vespri e mi torna alla memoria quello che ci diceva don Oscar in seminario: “La missione parte dalle ginocchia”.
In questi primi mesi in Perù ho capito quanto sia vero…