14 ottobre 2010, Korohocho – Nairobi – Kenya Karis

 

Carissimi tutti,

E’ un po’ che non mi faccio vivo, ma è davvero difficile farlo per tanti motivi. Troppe cose accadono tutte insieme, i fronti aperti sono tantissimi e non sai mai quello che accadrà tra un minuto. La testa è piena, e anche il cuore, ma è anche vuota allo stesso tempo. Ci vuole tempo per pensare e meditare, tempo per “digerire” tutto, tempo anche per scrivere. Dicono che questo sia Koch, termine familiare e affettuoso per indicare quella che invece è spesso, troppo spesso, una realtà terribile e, nonostante tutto, ignorata e dimenticata.
A tutto questo si aggiunge una tristezza di fondo degli ultimi giorni, o forse delle ultime settimane, visto che i giorni passano troppo veloci. Cerco di raccontarvi come posso.

Mesi fa vi avevo scritto di Teresia, ricordate? La donna anziana, ammalata, che avevamo portato alla casa per anziani delle suore francescane, dove poi era morta agli inizi di Maggio. Teresia era madre di tanti figli e figlie, alcuni/e già morti, altri ancora “in giro”. In giro c’erano John Kariuki e Mushono, oltre al loro cugino Mwangi, nipote di Teresia. Tutta gente di strada, alcool e discarica, Mushono addirittura con qualche problema psichico.
Ho imparato a conoscere John Kariuki, “Karis” per gli amici, da quando Teresia è entrata alla casa degli anziani. Era apparso una sera per ringraziarci di quello che avevamo fatto e da allora è stato un assiduo frequentatore della nostra casa, un po’ perché mi aiutava a svuotare il bidone della spazzatura (il suo modo per sdebitarsi), un po’ perché ricordavamo insieme i vecchi tempi dei Kindugu, di cui lui era un membro fin dagli inizi, e un po’ semplicemente perché non aveva tanti altri posti dove andare: “Io ho solo voi”, diceva. Al funerale di Teresia, sua mamma, ha scoperto di avere una famiglia, ed era una famiglia benestante. Benestante sì, ma incapace di prendersi cura di questi figli e nipoti di Teresia… troppo distanti i due mondi, troppe le difficoltà, troppi, forse, i rischi; sicuramente troppo grande il loro senso di impotenza di fronte a persone così distrutte, che appartenevano ad un mondo troppo lontano dal loro, finora a loro sconosciuto.
Anche John era stato preso da un certo senso di impotenza: aveva scoperto di avere una famiglia “per bene”, ma non riusciva a capire perché lui fosse ancora qui, a Korogocho, per di più nell’inferno di Grogon, il quartiere più malfamato. Eppure non si lamentava (beh, sì forse qualche volta, un po’ ebbro, lo faceva, ma non spesso, e non alzava mai la voce…). Veniva, di solito alla sera, si sedeva e iniziava a parlare. E noi iniziavamo ad ascoltarlo, a volte con pazienza, altre volte senza pazienza.
Alla fine di agosto Mushono, suo fratello, è stato ricoverato in ospedale. Era John che andava ad assisterlo quasi tutti i giorni, dipendeva solo dal fatto se riusciva ad avere da noi i soldi per il bus. E’ stato vicino a Mushono fino all’ultimo, insieme a qualcuno della famiglia. Poi Mushono è morto, ma John non ha potuto partecipare al funerale perché anche lui ha iniziato a non star bene. “E’ malaria”, diceva, “passerà”. Roba da niente, per uno che faceva la vita che faceva. Ma giorno dopo giorno si indeboliva sempre più. L’ho mandato all’ospedale a fare degli esami, ma non è risultato nulla. Con Raymond, e grazie ad un piccolo aiuto economico raccolto dalla famiglia per lui al funerale di Mushono, gli abbiamo trovato una casa in un altro quartiere di Korogocho e abbiamo fatto un accordo con una signora che conosciamo, padrona di un piccolo “hotel” (cioè una piccola “trattoria”), perché John potesse andare a mangiare tre pasti al giorno. Ma non migliorava.
Mercoledì 22 settembre Raymond ha portato John ancora una volta all’ospedale, ha fatto di nuovo vari test, niente. Poi abbiamo preso la decisione di portarlo in un altro ospedale, dove è stato ricoverato la notte stessa. Sabato e lunedì sono andato a trovarlo ma non sono riuscito a parlarci, era già in semi-coma, diagnosi: meningite.
Karis è morto martedì pomeriggio, 28 settembre.
Per la famiglia era il terzo funerale nel giro di pochi mesi, troppi anche per loro. Li ho aiutati a pagare il conto dell’ospedale, l’ho fatto soprattutto per John. Al suo funerale sono andato con Mwangi, suo cugino, ragazzo “grande” di strada, fortemente consumato dalla tanta colla sniffata, un po’ consapevole, un po’ inconsapevole di quello che era successo. Quando ci incontriamo per strada mi chiede sempre di telefonare “a quelli là” perché gli mandino qualcosa. Non chiede di più, per ora non vede nulla al di là della strada che tutto il suo mondo.
Continuo a pensare a John e alla sua vita. Il colpo finale me l’ha dato Raymond, quando l’altra sera condivideva con noi come viveva davvero John e dove abitava: niente letto, dormiva sulla nuda terra, con sotto solo uno straccetto, usando come coperta una vecchia zanzariera. Niente di più.
Mi faccio tante domande sul senso della vita di John Kariuki, Karis per gli amici. Una vita spesa sui marciapiedi non finiti di Grogon, apparentemente sempre perso, eppure molto, molto presente al mondo, alla sua situazione, alla sua nuova famiglia, a sua mamma. Ricordo ancora quando p. Paolo, dopo il funerale di Teresia, gli diede la carta d’identità di sua mamma: rimase lì diversi minuti, seduto sulla panchina fuori dalla nostra cucina, a contemplare in silenzio quello che rimaneva di sua mamma.
John ce la stava mettendo tutta a cambiare. Era già in lista per il prossimo gruppo che sarebbe andato per la riabilitazione a Kibiko. Era una persona intelligente, capace, spesso allegra. Sfortunato? Colpevole? Peccatore?
Come John ce ne sono tantissimi a Korogocho. Mwangi è uno, Ann è un’altra, spesso ubriaca, con due bambine stupende (5 e 4 anni) che sognano la casa della nonna dove una volta hanno mangiato “tanta carne e tantissimi chapati” (sono parole di Mary, la più grande). E tanti altri come loro. Con John mi ostinavo a fare grandi discorsi su come fosse importante cambiare, mi ostinavo a dirgli che non gli davo soldi perché se li sarebbe bevuti tutti… e lui in silenzio, o quasi, se ne andava a casa sua, a dormire coperto da una zanzariera straccia. Mi dico: ognuno indubbiamente ha le sue responsabilità, e John ha avuto le sue; mi dico che dobbiamo lavorare per cambiare le strutture di peccato che indubbiamente regnano incontrastate a Korogocho; mi dico che ho e abbiamo fatto il possibile per “aiutare” Karis… E lui se n’è andato in silenzio, così com’è vissuto, “non visto” da troppa gente, ignorato da tanti altri, colpevolizzato dai più.
Ho (ri)letto recentemente (mi è capitata “per caso” tra le mani proprio il sabato che sono andato a trovare Karis all’ospedale) una stupenda meditazione del cardinal Martini su Mosè e Gesù (è l’ultimo capitolo del libretto “La vita di Mosè”): Mosè – dice Martini – era l’uomo dei grandi numeri, sempre a che fare con le folle, le grandi masse; sempre a organizzare le strutture che avrebbero regolato la vita dell’intero popolo d’Israele. Gesù invece era l’uomo dei piccoli numeri… Scrive Martini: “Noi forse saremmo tentati di dire che, qualora si presentasse un caso che rientra nell’insieme di un gruppo, bisognerebbe prendere provvedimenti per quel gruppo. Invece Gesù dice: ‘Il gruppo aspetti; io mi occupo di te, caso particolare!’ In conclusione, se Mosè non ha tempo e non ha amici, Gesù ha tempo ed ha amici. Ecco la differenza tra la legge mosaica e il Vangelo… Gesù ha tempo di fermarsi volentieri con i singoli [perché] in ogni singolo sa vedere il ‘tutto’… Noi siamo chiamati a trovare Dio nel mondo, nelle cose, negli altri, nella storia; tuttavia questo non sarà mai possibile, se non partiremo da quella situazione immediata che è la nostra. In ogni situazione immediata, che comporta anche solo il più piccolo servizio, noi tocchiamo la totalità del servizio; in ogni frammento noi tocchiamo il tutto di Dio che si manifesta”.

Ecco, in questa lettera non vi sto raccontare tutto quello che accade a Korogocho, ma condivido con voi il tutto che ho visto in John Kariuki, Karis per gli amici. E che vedo ogni giorno in tanti come lui, davvero messaggeri del tutto di Dio.
Un grande abbraccio,

p. Stefano Giudici