16 aprile 2011, Korohocho – Nairobi – Kenya L’UNICA MANIERA PER REALIZZARE I PROPRI SOGNI E’ SVEGLIARSI!

 

L’unica maniera per realizzare i propri sogni è svegliarsi

Carissimi,
Impasse… sapete il significato di questa parola? Potrei dire “punto morto”, o “vicolo cieco”… Un punto dove sei arrivato e non vedi più nulla né davanti né dietro. Ti sembra di non andare da nessuna parte, né di aver lasciato alcuna traccia dietro di te, nonostante abbia camminato per giorni, mesi, anni. Sei lì, fermo, e pensi a tante cose, non ultima quella di come diavolo ci sei arrivato fin lì, e soprattutto, come diavolo farai a toglierti da lì.

Ho pensato spesso a questa parola/situazione in queste ultime settimane. L’ho vista attorno a me, in tante situazioni che ci fagocitano in questa benamata Korogocho. “Croce e delizia”, così cantavano il loro amore Violetta e Alfredo nella Traviata, e potrei dire la stessa cosa del mio essere a Korogocho.

Parlo dell’impasse in cui si trova il Kenya, preda di una classe politica che farebbe paura anche al più navigato analista. Tanta corruzione, tanto individualismo, tantissima lotta di potere, tanti soldi che girano, passando tra la mani dei soliti senza mai arrivare a quelle di chi ne avrebbe davvero bisogno. Una classe politica che tratta da eroi i sei accusati (solo accusati, non ancora colpevoli ovviamente, perché comunque si è innocenti fino a prova contraria) per crimini contro l’umanità per le violenze del 2008: sei personaggi di grido in Kenya, andati all’Aia alla Corte Internazionale come se fossero partiti per il martirio. E sono tornati da eroi, osannati da quella parte di popolazione che vuole rimanere cieca, non vuole vedere i nuvoloni neri che si accumulano all’orizzonte di questo straordinario Paese. Qualcuno lo dice apertamente: la sequel del disastro del 2008 non è poi così improbabile. Siamo fermi, senza sapere dove andare e senza vedere le tracce del cammino positivo, indubbio, fatto in questi anni.

È anche l’impasse del programma di upgrading di Korogocho, anch’esso invischiato in lotte intestine tra coloro che dovrebbero guidarlo. L’impasse di fronte alla bancarelle del mercato di Nyayo che non vogliono muoversi, bloccando così la costruzione della strada, che va già a rilento di per sé. Impasse per non vedere bene come questo programma potrà svilupparsi nella seconda fase, quella delicatissima dell’assegnazione dei titoli di proprietà delle case. Vorremmo che non sia solo la vittoria dei poteri forti di Korogocho, ma anche la realizzazione di una speranza di ogni persona, di ogni povero che a Korogocho ci abita da anni. E da anni paga un “regolare” affitto, anche se la sua casa è una baracca di tre metri quadrati col tetto in lamiera che fa acqua e il pavimento in terra battuta.

È l’impasse di fronte alla connivenza e omertà dei nostri vicini, colpevolmente silenziosi di fronte alla violenza del nostro quartiere. Qualche “forestiero” che viene derubato si stupisce del fatto che i ladri, una volta finito il lavoro con lui, non scappano, ma si siedono semplicemente al bordo della strada ad aspettare la prossima vittima, sotto gli occhi di tutti, soprattutto delle loro madri che sono poi sempre pronte a difendere i propri figli fin dentro alla stazione di polizia. Nessuno reagisce, chi per paura, chi per connivenza. E come si fa a riportare la sicurezza sulle strade senza l’appoggio della gente che potrebbe organizzarsi e difendersi, e invece preferisce il silenzio passivo?

È l’impasse di fronte a qualche progetto, nato da noi e poi sviluppatosi in autonomia, e adesso crollato per faccende di soldi, intrighi, egoismi e invidie… Dopo vent’anni di “evangelizzazione”, mi chiedo, siamo arrivati a questo punto, o meglio: siamo ancora a questo punto? Dove sono le tracce che abbiamo lasciato dietro di noi, o che pensavamo di aver lasciato? Mi giro, e non vedo nulla…

È l’impasse del lavoro con i bambini di strada e gli alcolisti. Il gruppo attualmente a Kibiko è, quest’anno, particolarmente difficile, impegnativo: mostra tutta la difficoltà di questo lavoro, tutta la complessità del mondo della strada, soprattutto le strade di Korogocho. Si prova una strada, si cerca un approccio, si fallisce, si ritenta, non si molla mai (in questo i nostri operatori sociali sono straordinari), eppure la fatica si fa sentire, a volte lo sconforto, soprattutto quando vedi qualcuno che ha finito il cammino di riabilitazione e ripiomba nell’alcool, o i ragazzi che scappano da Kibiko per tornare alla vita di strada. E allora che via prendere? Cosa fare? Stiamo lasciando qualche traccia, utile a qualcuno perché possa trovare la sua strada?

È l’impasse di una comunità cristiana che, dopo vent’anni di cammino, in mote situazioni si ritrova al punto di partenza, o poco più in là. La crisi dei vari ministeri della comunità, ridotti in molti casi al lumicino di quello che chiamo “lo zoccolo duro” di St. John: gente straordinaria che si fa in quattro, senza però riuscire a contagiare gli altri. Forse il virus dell’indifferenza sta diffondendosi anche in Africa. Forse è il momento di aprire gli occhi e guardare in faccia ogni pezzetto di questa realtà estremamente complessa. Forse è ora di lasciar cadere tanti luoghi comuni e accettare di camminare proprio con la gente che ci è a fianco, senza farci illusioni o cadere in sogni ad occhi aperti.

È l’impasse della nostra Italia, chiamata ad un surplus di accoglienza che il governo non vuole offrire perché chiuso nelle proprio ideologie e paure, chiamando in causa proprio quell’Europa che ha sempre denigrato e boicottato. Ed è senz’altro anche l’impasse di questa Europa, forse davvero mai decollata, nella quale stento a credere ancora, presa com’è dal mettere in salvo la propria ricchezza, e al diavolo se, negli ultimi anni, tra 15 e 20mila persone sono morte nel Mediterraneo (stima Caritas).

È l’impasse, gravissimo, di una politica che non è più politica, ma mercato, tutto viene valutato in termini di rendiconto, guadagno, vantaggi…anche la vita umana.

È, infine, l’impasse dell’Ultima Cena, momento estremamente intimo di Gesù coi suoi, ma estremamente drammatico perché Gesù scopre che tutto il suo lavoro non ha portato i frutti sperati. Lui dice una cosa, i discepoli ne capiscono un’altra, tutta all’opposto. È la sera del tradimento, dell’abbandono, della violenza. Tre anni a camminare su e giù per la Galilea e la Giudea, per cosa? Nessuno sembra aver capito nulla, Gesù si guarda indietro e non vede tracce…

Di fronte all’impasse, al punto morto di tante situazioni, ci sono diverse possibilità: tornare indietro, dicendosi che, “sì, ci ho provato ma è andata male… meglio lasciar perdere”. Oppure intestardirsi e continuare a picchiare la testa contro il muro che chiude il vicolo cieco, finché anche il riformista più ostinato capisce che a “picchiare la testa contro il muro, si rompe la testa, non il muro”.
Oppure…c’è un’altra risposta, che impariamo proprio all’Ultima Cena. La risposta del “passo in più”. È il passo che Gesù compie non per ritirarsi, non per rompere il muro a testate, ma per “amare fino alla fine”. È l’unica cosa su cui Gesù non molla, sulla quale si ostina, fino alla fine. Nel bel mezzo degli intrighi e tradimenti e fughe per paura e silenzi colpevoli di quella note tragica e benedetta, Gesù fa il passo in più che a noi, a me senz’altro, ancora manca: il passo dell’amore totale, del perdono incondizionato, del nuova creazione che cresce sulle rovine dei nostri sogni (e forse dei suoi…), dell’accoglienza dell’altro, sempre e comunque, senza se e senza ma. Nel bel mezzo della violenza generalizzata, istituzionalizzata, Lui dice una Parola d’amore totale: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… ricordatemi, facendo lo stesso. È la “memoria sovversiva” dell’Ultima Cena, del Venerdì Santo, e del mattino di Pasqua.

Nelle ultime settimane spesso mi sono chiesto, come Pietro: quante volte devo perdonare (cioè ridare un’altra chance, la possibilità di ripartire)? Io, come Pietro, vedo un limite ben preciso, un momento in cui dico, con la coscienza a posto: “basta”. Gesù no: questo limite per Lui non esiste, c’è sempre una possibilità, c’è sempre una fiducia incrollabile nella bontà degli uomini. A chi lo tradiva, a chi lo rinnegava, a chi lo abbandonava, Gesù offre se stesso, fino in fondo. Forse lo sapeva che era una cosa illogica da fare, una cosa senza senso; forse lo sapeva che lo avrebbero preso per naif, un tipo un po’ grullo che non conosce la complessità e la cattiveria dell’animo umano. Eppure non molla ma va fino in fondo. È la logica del dono. È il dono dell’Eucaristia, pane di unità dove c’era divisione e tradimento. È il dono della Parola da ricordare e dei segni da ripetere, per vincere le nostre amnesie e per farci uscire dai nostri vicoli ciechi.
E come sempre, alla fine ha ragione ancora Lui: risorge. Non torna in vita, ma procede verso una Vita totalmente nuova. Non torna sui suoi passi, ma porta a compimento quello che aveva seminato nonostante nessuno l’avesse capito. Non cambia strategia, ma ne svela il significato più profondo. E ci rimanda indietro, in Galilea, a riprendere il cammino dall’inizio, questa volta con occhi diversi, con il cuore che è in fermento per la sua Parola. È un invito a tornare sui nostri passi, non da sconfitti, ma proprio per accorgerci dei segni che Lui ha lasciato per strada, quasi fosse una caccia al tesoro.
È una cosa che ripeto da sempre, e che troppo spesso dimentico: Dio ci colma di segni innumerevoli che a volte sono così minuti che sembrano insignificanti. E invece la sua Resurrezione li rende pieni di senso: ciò che facevamo, o facciamo, apparentemente senza senso, o peggio, senza speranza, è proprio il seme della Resurrezione che sicuramente germoglierà, dove e quando non lo so…
Non è un cammino lineare, tanto meno facile. È un cammino di crescita attraverso crisi successive. “Dio viene a noi così come siamo. Gli esseri umani fioriscono solo passando attraverso crisi successive… Noi maturiamo attraverso la sopportazione di piccole morti e resurrezioni… La storia è solo una dannata cosa dietro l’altra. La storia della salvezza è una benedetta crisi dietro l’altra.” (Timothy Radcliffe).
E allora la luce nuova del mattino di Pasqua mi obbliga a vedere le cose in un altro modo. Anche le donne, andando al sepolcro, guardarono una seconda volta e solo allora videro che la pietra era stata rotolata via. Non sto a raccontarvi quello che vedo io, perché prima voglio invitarvi ad accorgervi di quello che vedete voi. Raccogliamo l’invito a tornare sui nostri passi per ritrovare i segni sparsi per strada. Solo così, giorno dopo giorno, impareremo anche noi a fare il passo in più… È questo il mio augurio di Pasqua di Resurrezione!
Un abbraccio,
Stefano

L’unica maniera per realizzare i propri sogni è svegliarsi… Svegliamoci!
(Roberto Benigni)