16 novembre 2008, Rhumzu – Camerun Novembre 2008

Ciao!
Come era arrivata, la pioggia se n’è andata. La rivedremo a fine Maggio… Le goyave sono ancora abbondanti: danno un’ottima marmellata. Il limone del giardino sta dando frutti in abbondanza: coi ragazzi prepareremo del buon sciroppo. L’albero di papaia di fianco alla doccia è stracolmo, ma bisognerà aspettare ancora parecchio… Bello! Di giorno la temperatura è gradevole, la notte, invece… Gli incontri di formazione si incalzano. Il catecumenato inizia un po’ alla volta, così come le diverse animazioni.
A scuola è già ora di comporre la seconda sequenza: il test alla fine del secondo mese di scuola.
Si lavora. Si prega. Si cerca di capire…
a presto

corrado

Novembre 2008

Novembre.
La piogga è terminata da un po’. Il verde intenso della stagione delle piogge lascia poco a poco il posto al giallo della stagione secca. Per la chiesa, il mese dedicato in particolare alla preghiera per i defunti. Anche la natura sembra vivere la sua agonia, per poi riesplodere in pienezza di vita alle prossime piogge.

I funerali.
Sono, di solito, un momento d’incontro prezioso tra il parroco e la sua gente. Ne ho celebrati in città, con 4 o 5 persone presenti. Anche i funzionari delle pompe funebri, in questi casi, sentivano il dovere di restare in chiesa. Ne ho celebrati nei nostri paesi, con la chiesa piena come la notte di Natale. La preghiera e il senso d’appartenenza alla comunità. Il dolore, la speranza, la riflessione… la fede.

Giovedì.
La sveglia del cellulare suona alle 5.10. Mi alzo. Guardo il grande orologio a muro nello studio: sono le 5.00. Accendo il computer: sono le 5.30. Il catechista mi aveva detto: “La messa è alle 5.30, perché inizia alle 5.45” (!?!). Forse è l’ora, ma sono un po’ confuso. Il tempo è relativo, una nostra costruzione. Mi affaccio alla veranda. Dalla casa a fianco, improvvisamente, si levano pianti. Donne che urlano, a passo di danza, con le mani sulla testa. JeanMarie, il primo sacrestano di Rhumzu, è morto. Si dice di AIDS. L’avevamo portato a casa dall’ospedale l’altro ieri. Do una benedizione. Vado a celebrare. Jean Marc mi dice: “Non capisco. C’è chi muore a 5 anni, chi a 30, chi vive tanto… La vita è un mistero”. A Messa c’è poca gente. All’uscita comprendo il perché. Una gran folla è radunata davanti alla casa. Il tamburo, martellante, fa da centro alle donne che danzano e cantano in cerchio. Per tutta la giornata sarà così. E non solo oggi. Una preghiera semplice per far uscire il corpo dalla sua camera. Alle 15.00 la preghiera e la sepoltura. Dopo otto giorni la Messa di funerale.

Avevo fatto tardi col gruppo giovani a Vitté. Alle 18.30 è già notte e, in giro in moto, per i sentieri della brousse, non è bello… Davanti a me una folla che, sul sentiero, canta, danza, corre e agita bastoni e spade decorate. Qualcuno si abbassa e tocca la terra. Le urla sono forti. E’ morto un anziano. E’ il dolore per la perdita di una persona cara a cui tutto il villaggio partecipa. Stanno andando in corteo a visitare la salma del defunto. Mi salutano. Mi lasciano passare. Sono quasi arrivato a casa…

Il rito di sepoltura è semplice. Il corpo avvolto in un lenzuolo. A volte nel materasso. A volte in una cassa di legno. Siamo arrivati sul posto, verso Gouria. Un punto un po’ elevato da cui si può godere un bel panorama sui picchi della zona. Prima di calarlo nella fossa, il prete locale, un omone alto e grosso, solennemente dice: “State bene ad ascoltarmi. (pausa) Voglio essere chiaro con voi. (pausa) Vi parlo come si parla al villaggio”. Un silenzio perfetto. Solo il vento continua il suo canto. “Chi ha qualcosa da dire: parli ora o taccia per sempre!” E’ il momento di reclamare i debiti del defunto, di regolare le contese, di cui si farà carico la famiglia. Tutti tacciono. Il pretone si guarda solennemente a destra e a sinistra. “Procediamo!” Ordina. Il corpo è calato. Si getta una manciata di terra. Ai catechisti, che hanno scavato la fossa, spetterà aspettare la fine e arrangiare la tomba.

Le tombe.
Un cumulo circolare di pietre. Qualcuno ora preferisce il cemento. Così è più facile incidere il nome o poter leggere un “Nato verso il 1948”. Sulla tomba viene spaccato e lasciato il vaso in terracotta usato dal defunto in vita. Delle pietre ad indicare che si tratta di un uomo. Nel rientrare noto diverse tombe dimenticate (penso io): nascoste dall’erba e dalla terra. Su alcune sono spuntati anche delle alte piante di mais. Sorrido. Lo indico al ragazzo che è con me. Lui commenta: “E’ fantastico: è spuntato il mais! Dalla morte spunta la vita che ci nutrirà. Dio non abbandona i suoi figli!” Capisco che il mio sorriso era fuori luogo. Devo ancora imparare tante cose. E se, sulle nostre tombe, piantassimo dell’insalata, anziché mettere fiori morti?

Anche Francis, un anziano della comunità di Kossahai, è morto. L’avevo visitato due volte. Disteso su una panca in terra della camera d’ingresso della sua casa. Aveva una grande piaga sulla gamba. Poi si era tutto gonfiato. Soffriva, ma non si lamentava. La comunità più volte l’aveva visitato per la preghiera. Anche con il père presente, era stato il catechista a guidare la preghiera, molto semplicemente.
Arrivo a casa di Francis con i catechisti del settore, dopo il loro incontro di formazione. Una cosa mi è subito familiare. Anche in Africa, sono le donne che pregano. Gli uomini assistono a lato. Pregano, forse, a modo loro. Parlano. In cerchio, si danza e si canta. “Tarna” è il suono che continua a ricorrere. Chiedo spiegazione. Significa “lassù”, una parola che si usa per evitare di pronunciare “Cielo”, il nome di Dio. Per fortuna c’è Marcel che mi traduce: “Alla fine della vita saliremo tutti al Cielo, con la Bibbia in mano, il nostro lasciapassare”. Il ritornello è ripetuto continuamente. Il canto è probabilmente preso dai protestanti, in Ausa, la lingua parlata in Nigeria. Noi siamo sul confine tra i due stati.
Le persone accorse sono tante. Le donne continuano la danza circolare. C’è chi prende per mano chi sta a guardare per invitarla ad entrare nel cerchio, come per dire, se fossimo in Italia: “Non fare la malmostosa, rispondi anche tu al Rosario!”
Durante la Messa all’aperto, una fila di donne con in testa dei bidoni di plastica pieni di bil bil ci passa a lato. Non c’è festa, non c’è funerale senza la birra. E’ il segno della condivisione. E’ dentro la cultura della gente. Al funerale di un prete, la comunità aveva deciso di non dare vino per prevenire i disordini che, inevitabilmente, nascono quando si beve. Sono stati i preti della zona a presentarsi con una cassa di birra.
Il tam tam scandisce la danza e non smette mai. Inizio la Messa. Tutti seguono con attenzione. Anche chi non è cristiano. Fila tutto liscio fino alla comunione. Alphonse mi aveva avvertito: “Mon père, fai in fretta”. Un violento acquazzone, preceduto da folate di vento freddo, ci fa scappare dentro una casa. L’ultima preghiera della messa e un piatto di polenta con della carne, in attesa della fine del temporale. Tra un anno, un’altra Messa chiuderà i riti di sepoltura. Ancora tanta gente, ancora tanto bilbil…