22 agosto 2010, Korohocho – Nairobi – Kenya Finalmente…

 

Carissimi tutti,
è domenica sera, un momento relativamente tranquillo della settimana, dopo la visita delle piccole comunità cristiane. Mi metto al computer e cerco di buttar giù qualche pensiero per poter condividere con voi quello che sta succedendo qui, e quello che sto vivendo in questo periodo. “Finalmente!”, direte voi, ma non è un’impresa facile perché la testa è davvero piena di persone, eventi, parole, sguardi… da dove comincio?
Comincio dalla fine. Oggi, tornando a casa dopo la seconda messa, ho sedato una rissa di vicini: un uomo stava ferocemente picchiandone un altro accusato di furto. La gente a capannello attorno, chi guardava impaurito, chi addirittura incitava sottovoce (la sorte dei ladri, se presi in flagrante, è tragica). Mi sono messo in mezzo senza sapere bene quello che avrei fatto, ma a volte basta la presenza del “padre” per dare una svolta alle situazioni. Insomma, il picchiatore si è calmato, il picchiato, di certo non uno stinco di santo, se l’è svignata. Sono riuscito a dire all’accusatore di venire a parlare un po’ e infatti, dopo un paio d’ore, è venuto, accompagnato da suo cugino. Si era calmato, abbiamo parlato, mi ha raccontato un po’ di quello che fa: due bambini, senza moglie, lavora saltuariamente come muratore; il ladro, dice lui, gli aveva rubato gli attrezzi del mestiere, la rabbia è esplosa, incontrollata e violenta. Ho cercato di dirgli che un attimo di rabbia cieca può rovinargli la vita per sempre, e allora sì che i suoi bambini sarebbero nei guai. Chissà se ha capito.
Korogocho è un posto violento, questo lo si sa. É la violenza di chi attacca sulla strada, soprattutto di notte, ma è anche la violenza di chi si difende. A volte esplode improvvisamente, lo sfogo di un troppo lungo mandar giù ingiustizie e soprusi. Più spesso però è una violenza sottile, contro la quale si può davvero ben poco: la violenza di una situazione di malattia contro la quale non c’è più nulla da fare; la violenza delle ingiustizie di un sistema corrotto e corruttore; la violenza dello stress dovuto a pensieri e preoccupazioni che ti mangiano vivo, a poco a poco; la violenza del ritornare a casa, ancora una volta, senza aver lavorato per un altro giorno, il che, in molti casi, significa semplicemente che si va a letto senza mangiar nulla; la violenza dell’alcool, e di chi lo vende come fonte di sostentamento, magari roso dai sensi di colpa.

La gente accumula, accumula, e poi scoppia, o muore. È stato un periodo di morti quest’ultimo mese. Alice l’avevo battezzata dopo Pasqua, a casa sua perché troppo debole per venire in chiesa, e poi il 19 luglio Paolo gli aveva conferito la cresima, sempre a casa; a letto da quasi un anno, madre vedova di sei figli, è morta alla fine di luglio. Helda invece ha avuto una morte diversa: anch’essa malata da tempo, non aveva mai accettato la malattia e, rifiutando le medicine, di fatto si è come lasciata morire, un altro modo di dire basta. Joyce, per tutti Kadogo, è morta invece dopo l’ultima bevuta al famoso bar “Milango Tatu” (Le Tre Porte, cento metri da casa nostra), distrutta dalla malattia e dall’alcool.
Queste morti, di gente che conoscevo (Helda è stata la prima ammalata che ho visitato a Korogocho, con Paolo; Alice l’ho seguita anche con un po’ di catechismo per prepararla ai sacramenti), mi hanno molto colpito. Sono morti violente anche se non si sparso sangue, segni di situazioni che spesso, troppo spesso, non perdonano, e distruggono.
Più di queste morti e di questa violenza, mi colpisce però la vita che sempre continua, anche dopo di esse, al di là di esse.
Kadogo era stata prescelta per far parte del gruppo di donne che attualmente sono a Kibiko e stanno uscendo dalla trappola dell’alcool; all’ultimo momento, però, aveva rifiutato e aveva lasciato il suo posto a sua sorella Pauline, anch’essa alcolizzata. Non so quanto sia stata una scelta cosciente, quella di Kadogo, ma di fatto lei è morta e adesso Pauline è una persona nuova. Cosa lega questa morte e questa vita?
La messa che ho celebrato sotto la casa di Helda, di fronte alla sua bara bianca, la sera prima che fosse portata al cimitero, è stata un’esperienza forte. Abbiamo celebrato sotto casa perché in casa non ci si stava; io e la bara da una parte, i cristiani dall’altra, e la gente che passava in mezzo, sempre facendo un segno di rispetto. Pensavo: davvero la vita qui non si ferma mai, davvero nulla riesce a fermare il pulsare di questo posto. Dopo qualche giorno la sua figlia maggiore è venuta a parlarmi, chiedeva un aiuto per riprendere il piccolo business della mamma che vendeva gli scarti del pane: un altro modo per reagire alla morte e continuare a vivere.
La sera stessa della morte di Alice ho incontrato i suoi bambini più piccoli sulla strada vicino a casa nostra (Alice era una nostra vicina); forse inconsapevoli di quanto era accaduto, continuavano i loro giochi di strada, quasi come se niente fosse successo. Kevin, il maggiore, è al primo anno delle secondarie, avrebbe bisogno di un padre e invece ha perso anche la madre. Mi chiedo come cresceranno i sei figli di Alice, eppure so che ce la faranno, in un modo o nell’altro.
Niente si ferma, non c’è tempo, forse nemmeno la voglia, di fermarsi a piangere i morti. La vita continua, deve continuare, sia perché la vita a Korogocho è davvero esigente e non lascia momenti liberi nella lotta per la sopravvivenza, sia perché questa è gente che ama la vita, la esprime in mille modi, la ama, la tiene stretta come il suo tesoro più prezioso. È per questo che mi viene davvero il nervoso e sento una rabbia profonda quando vedo questa stessa gente così amante della vita, buttarsi via a pochissimo prezzo in alcool, droghe e quant’altro.
E capisco un po’ di più perché siamo qui, perché sono qui, e perché – credo – dobbiamo essere qui. A me sembra una cosa evidente in sé, quasi un assioma che non può essere dimostrato. È come dover spiegare perché la discarica del Mukuru deve essere chiusa e spostata: come fai a spiegare l’evidente? Perché devo ancora spiegare a tanta gente il significato di una presenza di Chiesa in un posto come Korogocho? Perché dobbiamo ancora difendere, quasi giustificare uno stile di vita che cerca di abbattere il più possibile ogni barriera tra noi e la gente, in termini di strutture e orari? È vero, è una scelta davvero impegnativa, perché il tempo per noi stessi si riduce alle ore notturne, ma è una delle scelte “storiche” di Korogocho, forse la più importante, più ancora del posto stesso; una scelta che difendiamo coi denti, se necessario, perché non avrebbe senso agire diversamente in un posto come Korogocho. La gente stessa non ha barriere, direi quasi che non ha freni inibitori, dice quello che pensa, fa quello che pensa, e quello che vuole, a cominciare dai bambini che crescono alla scuola della strada. Korogocho richiede una presenza totale, senza riserve, proprio perché “totale” è la vita di Korogocho: non è mai una vita attutita, stuccata, artificiale. Questa, forse, è la sua forza; per questo, forse, questa vita non si ferma mai, né di fronte alla violenza, né di fronte alla morte.
Quelle che si fermano, invece, sono le promesse dei “grandi”, a iniziare dal programma di upgrading, ormai in stallo da più di due mesi. Si saranno mangiati i soldi, o li avranno finiti prima del tempo? (il che, a ben vedere, equivale alla stessa cosa). Di fatto siamo bloccati, con metà delle strade da asfaltare incomplete, i lampioni che a volte funzionano e spesso sono spenti, la numerazione delle case completata, o forse non ancora (questo è quello che ci dicono…). Sono sempre stato, purtroppo, pessimista riguardo a questo progetto, e vengo confermato, purtroppo, in questo pessimismo. Vorrei tanto che qualcuno mi smentisse, ma finora nessuno c’è riuscito.
Grazie a Dio la vita continua, anche senza strade asfaltate. Continua a Korogocho, e continua a Kibiko dove, ogni volta che vado, assisto al miracolo della rinascita. Le cinque donne ex-alcolizzate ce la stanno mettendo davvero tutta, sono entrate nel loro ultimo mese di permanenza al centro e in due mesi si sono trasformate in modo stupefacente. È qualcosa di bello, quasi di mistico, vedere una persona rimettersi in piedi, prendere coscienza di sé, superare la vergogna, liberarsi di tanti blocchi, e riprendere a camminare. Il cammino è ancora lungo, pieno di trappole, ma loro hanno deciso di camminare. L’impegno e la dedizione degli educatori che lavorano a Kibiko e a Korogocho ha dello straordinario: “Perché lo fanno?”, mi chiedo spesso; non certo per soldi, visto che la paga che possiamo offrire loro non può certo competere con quanto prenderebbero anche nella più scassata delle ONG. Non è forse invece per la forza di questa vita che scorre anche in loro e, attraverso di loro, in tanti altri? Per il desiderio, l’impegno, la voglia di trasmettere almeno un po’ di questa vita che sentono dentro di sé, e in questo trasmetterla, questa vita diventa Vita, piena, bella, eterna.
Qui tutti sono indaffarati a vivere, a cercare di rendere la loro vita il più normale possibile in un posto che di normale non ha quasi nulla. Il contatto quotidiano con questo inattaccabile desiderio di vita è la formazione più vera, la scuola più autorevole, l’aiuto più efficace ad abbattere tanti luoghi comuni e tanta artificiosità che noi religiosi, cristiani perbene, ci costruiamo in nome di Dio. E così facendo sempre ci sfugge la verità che Dio è altrove, pellegrino impolverato sulle strade non asfaltate; malato inchiodato a un letto in una baracca perché non c’è posto per Lui in ospedale dove dovrebbe pagare tutto, anche dopo che è morto; ubriaco steso in mezzo alla strada, senza nemmeno lo sguardo incuriosito o infastidito di chi su quella stessa strada vive, lavora, gioca e si riposa. Di fronte a questa esplosione di Vita, che ognuno esprime come può, ma sempre senza riserve, mi fa davvero male una Chiesa, o dovrei scrivere: chiesa, senza la maiuscola, che ancora nel terzo millennio si crede autorizzata a dire ad altri, soprattutto ai poveri, ‘questi disgraziati’, dov’è Dio. Questo proprio non riesco ad accettarlo.
Ma grazie a Dio, noi siamo qui, e grazie a Lui (davvero!), abbiamo questa gente umile e tenace che ci insegna i cammini di Dio.
I progetti vanno avanti bene, con coraggio. In questa settimana avremo una tre giorni di coscientizzazione sul problema dei bambini che abbandonano la scuola e sull’uso delle droghe: tre giorni di formazione ma anche di giochi, teatro e anche un po’ di preghiera. La scuola è ferma per le vacanze di agosto, ma riprenderà a settembre; la Biblioteca Nazionale di Nairobi vorrebbe aiutarci a modernizzare la biblioteca perché la vedono come l’unica realtà di questo tipo veramente al servizio della comunità, non solo di St. John, ma di tutta Korogocho (una media giornaliera di duecento scolari provenienti quasi da tutte le scuole del territorio). E c’è poi il sogno di allargare qualche aula per avere una scuola di musica e una sala computer… tanti sogni per far scorrere la vita e qualificare sempre più le ragazze e i ragazzi di Korogocho. Questa settimana è anche la settimana dei giovani e quella della Società Sportiva, trasmettitrice di vita attraverso lo sport.
Insomma, non ci si ferma mai, perché la vita a Koch è sempre in corsa…
Un abbraccione, e vado a dormire.
Stefano