5 maggio 2007, Karthum, Sudan – l’acqua di Soraya

 

Il giovedì santo di quest’anno mi trovavo sui Monti Nuba, una regione del Sudan Centrale dove come Missionarie Comboniane siamo presenti con una comunità. Da tanto tempo avevo promesso a Soraya, una signora del posto impiegata da noi come collaboratrice domestica, di andare a salutare la sua famiglia, e per una ragione o per l’altra l’appuntamento era sempre stato rimandato. Finalmente il giorno in questione potevamo avviarci verso Kerker, il suo villaggio.
Alle due del pomeriggio, con un sole che spaccava le pietre delle rocciose Montagne Nuba, ci incontrammo al cancello della nostra casa. Vidi che Soraya andava verso la pompa a mano per tornare subito dopo con un fustino di plastica sulla testa, naturalmente riempito di acqua fino all’orlo. Alle mie domande in proposito, rispose che tutti i giorni tornava a casa con un fustino di acqua potabile dal momento che il pozzo vicino al suo villaggio si era disseccato. Camminammo per un’ora, la maggior parte del tempo in salita. Ci fermammo solo una volta alla scarsa ombra di un baobab senza foglie, con il sudore che colava dalla faccia di Soraya che portava 15 litri sulla testa. Nonostante la sua poco confortevole situazione, chiacchierammo del più e del meno fino alla sommità di una bassa catena montuosa oltre la quale si trova Kerker. La casa di Soraya è costruita leggermente al di sotto della sommità. Una volta lassù potevamo godere di un panorama incantevole, con varie catene di monti digradanti nella vasta pianura di Al-Lubi che fino a pochi anni fa separava le zone controllate dalla guerriglia dalle zone sotto il controllo governativo. La calura sfumava i contorni in lontananza, ma più vicino le capanne di Kerker spiccavano nitide sulle pendici dei monti. Per un attimo dimenticai l’acqua di Soraya, mentre la poesia del momento prendeva il sopravvento.
Soraya, molto pratica, mi chiamò all’interno della casa a bere una ciotola di acqua mantenuta fresca in un’anfora di terracotta. Effettivamente le dissi che mi dispiaceva bere quell’acqua sapendo che era stata portata lassù dal fondovalle. Lei si fece una risata e io naturalmente bevvi quello che veniva offerto.
E’ molto comune sui Monti Nuba vedere le donne che vanno e tornano dai pozzi portando fino a 20 litri di acqua sulla testa e magari un bambino sulla schiena. Ora, a due anni dalla firma della pace, la gente sta lentamente spostandosi dalle zone alte, più inaccessibili, verso i fondovalle, ma c’è chi ancora non si sente del tutto sicuro. Mentre scendevo rapidamente dalla montagna, avevo ancora davanti l’immagine di Soraya che saliva tranquillamente con il suo carico e pensai alla teologia della liberazione. Non mi venne in mente nessuna elaborata riflessione, ma solo la necessità che degli esseri umani vengano liberati dal giogo di fatiche logoranti e di ansie inflitte loro da altri esseri umani. Era il giovedì santo e pensavo che noi cristiani celebriamo la liberazione dal male portataci da Gesù Cristo attraverso il suo sacrificio. Questa liberazione deve assumere uno spessore a tutti i livelli della realtà quotidiana, deve incarnarsi nella vita delle tante Soraya dei Monti Nuba e altrove. L’ingiustizia che toglie poesia e bellezza alla realtà non ci può lasciare indifferenti.
Quando facevo parte della comunità sui Monti Nuba, ricordo che mi ero abituata alla scena quotidiana delle donne alla pompa dell’acqua: una parte del panorama. Negli ultimi minuti insieme, Soraya mi parlò del suo sogno: costruirsi un’altra capanna in pianura entro la fine dell’anno perchè ormai è stanca di salire e scendere dal monte tutti i giorni. La condizione di insicurezza durante la guerra aveva costretto lei e molti Nuba a una vita estremamente dura, in cui le più semplici occupazioni quotidiane richiedevano uno sforzo che sfiniva. Sua mamma era stata uccisa durante un attacco nemico e lei non voleva fare la stessa fine.
La pace in Sud Sudan e Monti Nuba ha posto fine alla macro ingiustizia della guerra, della cui potenza distruttiva ci si continua a rendere conto quando episodi piccoli e grandi ci pongono davanti agli ostacoli che l’ottusità e violenza di un conflitto ha posto sul cammino di tante persone. Nessuno e nessuna si abitua a vivere in una situazione ingiusta: l’aspirazione a spezzare il giogo rimane innata, e immediatamente affiora non appena la tensione si allenta, così Soraya ha già il terreno per la sua nuova abitazione. Come cristiani abbiamo il dovere, credo, di non abituarci mai all’ingiustizia, sia inflitta a noi che ad altri.

 suor Elena BALATTI