6 luglio 2011, Korohocho – Nairobi – Kenya Vita di Missione!

 

Carissimi,
Ieri sera siamo tornati da Marsabit, dove abbiamo avuto un Consiglio Provinciale, la festa del Sacro Cuore, e una gita nel deserto. Insomma non ci siamo annoiati!
Marsabit è 550 km a nord di Nairobi, strada asfaltata fino quasi alla fine, perché gli ultimi 130 km sono in terra battuta. E polverosa. E’ una piccola cittadina (5000 abitanti, mi dicono) che sorge ai piedi di una montagnetta che rende il clima più tollerabile, almeno per quelli che vengono dall’Europa. Sì perché, pur essendo circondata dal deserto, al mattino si può facilmente trovare la nebbia e il freddo. La foresta che copre metà della montagna arriva ad un certo punto e scompare, come se qualcuno avesse tracciato una riga con la matita: qui c’è la foresta, un passo più in là il deserto.
Il problema principale ovviamente è l’acqua, che non c’è. Tutta la città vive dell’acqua piovana che, quando c’è, è abbondante a sufficienza per tutti. Attorno alle abitazioni, alle scuole, alla parrocchia, ci sono innumerevoli tank dell’acqua che raccolgono la pioggia benedetta. Ovviamente la prima pioggia è sporchissima perché lava i tetti impolverati, ma qui non si butta via niente. Mi dicono che quando inizia a piovere, la gente si butta con recipienti di ogni genere e forma a raccogliere perfino l’acqua delle pozzanghere… Insomma, dopo un paio di giorni mi sono reso conto che noi a Korogocho siamo davvero fortunati sotto molteplici punti di vista.
Altro problema grosso nella zona è il tribalismo, che spesso sfocia in vere e proprie azioni di guerra, o vendetta. I politici di turno (sempre loro!) hanno gioco facile a strumentalizzare queste divisioni ataviche per i loro comodi e sporchi interessi. Nella diocesi, che conta dodici parrocchie su un territorio di 78000 km2, ci sono sei o sette gruppi etnici, tra cui i Borana, i Rendille, i Samburu, i Gabbra, e altri. E qui c’è il grande dilemma missionario: se si decide di imparare una delle lingue locali, per esempio il Borana, si riesce a entrare nella cultura e nella vita della gente, ma il prezzo da pagare è l’esclusione da parte delle altre tribù, perché si è visti come il nemico, o l’amico del nemico. Se invece si decide di usare solo il kiswahili (come si sta facendo a Marsabit), allora si può parlare con tutti, ma il prezzo da pagare è che non si riuscirà mai a entrare davvero nella cultura (visto che quello che si dice deve sempre essere tradotto…). Problema insolubile, credo.
Problemi di ordinaria vita missionaria. E’ solo in questi posti così fuori dal mondo (apparentemente), che si può cogliere tutta la forza straordinaria di una presenza missionaria. Domenica sono andato a dire due messe, accompagnato da una suora comboniana. A meno di mezz’ora di auto la prima cappella: una baracca, con attorno alcune “magnatta”, le tipiche case dei Borana, in mezzo al niente. Mi guardo attorno e vedo solo quello che per me era già deserto. Poi il catechista mi dice: “Laggiù c’è l’ultima cappella della parrocchia”. Laggiù dove? mi chiedo, vedo solo deserto. Eppure, mi dico, la Chiesa è arrivata anche qui, Dio non si dimentica proprio di nessuno.
Visto che avevamo finito il Consiglio Provinciale già sabato sera (dopo una tirata incredibile venerdì e sabato), domenica la dedichiamo al Signore, e lunedì lo dedichiamo ad una “gita fuori porta”. Andiamo in macchina (usiamo la macchina della missione perché quella del Provinciale, che già è un fuoristrada, è troppo leggera per le strade da affrontare) fino alla parrocchia di Kargi, anch’essa totalmente sperduta nel deserto (un’ora e mezza da Marsabit) e poi, dopo aver bevuto il tè nella casa del parroco assente per motivi di salute, ci inoltriamo nel deserto di Chalbi. Qui è il paradosso totale: siamo nel deserto che, quando piove tanto, può diventare un lago di acqua salata; rischiamo di impantanarci (sic!), passiamo su una distesa incredibile di sale (lasciato dall’acqua evaporata) che sembra neve. Volevamo arrivare a Maikona, e invece, causa il non aver notato la deviazione, ci portiamo fino a Kalecha, praticamente alla fine del deserto. Anche questo è un villaggio nel mezzo del deserto, dove sorge una cappella in pietra abbellita da bellissimi affreschi etiopici che raccontano la storia della Salvezza. Poi torniamo a Maikona dove c’è un sacerdote della Romania e alcune suore messicane (l’universalità della Chiesa!): ragazzi giocano a pallone sotto il sole infuocato, sulla terra arida del deserto; il solito dispensario, adesso governativo, la solita scuola, anch’essa in mano al governo. Un’oasi senza palme, e sempre con il problema dell’acqua, anche se qui hanno alcuni pozzi, che invece mancano a Marsabit (perché a Marsabit, anche scavando, l’acqua non c’è proprio). Ritorniamo a casa che sono le otto passate, e manca la luce, quindi mangiamo una cena frugale alla luce di due lampade a pannello solare.
Il missionario si adatta davvero a tutto, e dopo un po’ non ci si fa caso alle ristrettezze che il luogo impone (farsi una doccia con un catino d’acqua, per esempio). Ma è la gente che ancora una volta è maestra indiscutibile di vita. É paziente e tenace, perché ogni mattino le donne si armano di bidoni di plastica e vanno a cercare acqua, anche venti, trenta chilometri. Nelle scuole l’acqua è razionata, e i ragazzi hanno a disposizione venti litri per una settimana. Qui si capisce davvero l’importanza dell’acqua, si impara a razionarla, a trattarla con infinito rispetto, a ringraziare Dio per ogni goccia e per ogni bevuta.
Adesso torno a Korogocho, da dove manco da troppo tempo. Ho davvero voglia e bisogno di tanta quotidianità, anche se Paolo mi teneva aggiornato di tutti i vari e nuovi “problemi” che a Korogocho sono come i funghi dopo la pioggia. Ma ho proprio voglia di tornare a casa. La differenza con il deserto di Marsabit e le sfide di quella zona sono enormi e stridenti, eppure è lo stesso Paese, la stessa Chiesa, gli stessi comboniani. Il bello della missione. Il bello della vita.
Un grande abbraccio a tutti,
Stefano

PS: RICORDATE IL SUD SUDAN NELLE VOSTRE PREGHIERE: IL 9 LUGLIO E’ LO STORICO GIORNO DELL’INDIPENDENZA. Il Presidente del Sud Sudan ha invitato personalmente il Superiore Generale dei Comboniani, esprimendo gratitudine per tutto il lavoro fatto in questi anni di guerra, prendendo atto che eravamo tra le pochissime congregazioni e organizzazioni che sono sempre rimaste in Sudan, anche nei tempi più duri. San Comboni può essere soddisfatto.

p. Stefano Giudici