11 ottobre 2013 – Il fascino disarmante della bontà
La loro casa è una stanza senza finestre, senza corrente elettrica, senza acqua, senza fognature. Da diversi anni ormai vivono in uno dei quartieri dell’estrema periferia di nord di Lima, ma dal loro abbigliamento sembra siano scesi da poche settimane dalla cordigliera andina. Non conosco i loro nomi e non ho idea di quanti anni abbiano. Tutti li chiamano “abuelitos”, cioè nonnini. E anche a me piace chiamarli così. Quando celebriamo la Messa sono sempre tra i primi a prendere posto nella cappella della Soledad. Arrivano camminando piano. Davanti lui, con un bel cappello ampio di cuoio. Dietro lei, con due trecce lunghe che cadono su una manta colorata che copre le spalle. Mi salutano, mi abbracciano, mi aggiornano sui loro acciacchi mescolando spagnolo e quechua.
L’altra settimana sono stato per la prima volta a casa loro. Le pareti sono completamente scrostate dall’umidità, ovunque sono appoggiati vecchi attrezzi agricoli e sulla porta ciondola un machete arrugginito. Mi siedo su un piccolo sgabello e loro su un divano storto che scopro essere il loro letto. Mi raccontano dei loro figli lontani per il lavoro, solo una volta ogni due o tre mesi passano a salutarli. Non hanno né corrente né gas e cucinano in un angolo della casa bruciando legna su quattro mattoni. Mi dicono che alcuni vicini sono molti buoni, che spesso li invitano a cenare o gli portano la zuppa o riso e pollo. Le scodelle e i piatti li restituiscono senza lavarli, perché non hanno acqua in casa.
Mentre ritorno verso Carabayllo ripenso ai nonnini, ai loro racconti, alla loro casa buia, alle loro mani sformate dal lavoro duro dei campi. Ripenso alle storie che mi hanno raccontato e mi commuovono le piccole e meravigliose attenzioni dei vicini che squarciano il buio dell’indifferenza da cui siamo circondati, in Perù come in Italia. E’ l’indifferenza del sacerdote e del levita che “passano oltre” quando incrociano nel loro cammino quell’uomo ferito, qualunque sia la sua ferita. Per fortuna ci sono ancora samaritani che si aggirano sulle nostre strade, uomini e donne che non si blindano nei recinti del potere o del sacro, ma sanno stare per strada senza paura di sporcarsi le mani o di inzupparsi degli odori dei vicoli della periferia. Per fortuna ci sono ancora uomini e donne che non “passano oltre”, ma “passano accanto”, che si avvicinano e si fanno prossimi, che incarnano la carità in gesti concreti sperimentando il fascino disarmante della bontà.
Il samaritano si è avvicinato, ha visto, ha toccato, ha respirato il rantolo di quell’ uomo solo e ferito. La sua compassione e la sua carità nascono da un “vedere”. Forse è per questo che tanti nostri discorsi e progetti pastorali lasciano il tempo che trovano e sono privi di passione. Non nascono da un “vedere” o da un
“avvicinarsi”, sono scritti sulla punta del campanile e non in un marciapiede di città o in un mercato di paese.
Che le nostre comunità riscoprano il fascino disarmante della bontà e i gesti nascosti e luminosi della vera carità evangelica.