Oggi è possibile viaggiare praticamente dappertutto e raggiungere gli angoli più sperduti della terra; vengono persino organizzati viaggi turistici al Polo Sud. Il Sudan fino a pochi anni fa faceva eccezione: prima dell’accordo di pace del 2005 alcune aree erano virtualmente inaccessibili al resto del mondo per un calcolata strategia di guerra. Le missionarie comboniane che risiedevano ad esempio a Malakal, capoluogo della regione dell’Alto Nilo, per una ventina di anni non poterono uscire dalla città per visitare le comunità cristiane nell’area. Gli spostamenti erano consentiti solo in aereo verso zone non direttamente interessate dal conflitto.
La firma della pace ha gradualmente riportato la libertà di movimento, ma la curiosità di vedere che cosa veniva tenuto nascosto passa subito quando si raggiungono centri come Lul, a due ore di barca lungo il Nilo a nord di Malakal. Quest’anno ho celebrato lì la Pasqua insieme a un gruppo di persone che accompagnavano il vescovo, Mons. Vincent Mojwok. Il viaggio è cominciato nel tardo pomeriggio e mentre procedevamo a una discreta velocità, il panorama fluviale – rimasto immutato per centinia di anni – cambiava rapidamente i suoi riflessi e colori adeguandosi al calare del sole. La maggior parte dei 25 passeggeri della barca erano giovani e per due ore ininterrottamente hanno intonato un canto religioso dopo l’altro.
La vivacità e gioia espressa dai canti ha costituito il preludio della Pasqua e mi ha fatto riflettere sul modo africano di sentire e celebrare solennità religiose. Sapevo che non avremmo avuto la veglia pasquale e mentre pensavo a come in tante altre parti del mondo fervevano in quel momento i preparativi per la bellissima liturgia della vigilia, non ne sentivo comunque la mancanza. Se la Pasqua è la celebrazione della speranza, della vittoria della vita sulla morte, della gioia sulla tristezza, il coro improvvisato di giovani sudanesi e i loro volti sorridenti esprimevano proprio questa realtà.
Siamo arrivati al buio, accolti da alcuni poliziotti alterati dall’alcol che gridavano di spegnere le torce elettriche, probabilmente dimenticandosi che la guerra e il coprifuoco sono finiti! La luna piena della Pasqua è provvidenzialmente sorta a illuminare l’unico edificio rimasto del complesso dell’antica missione, aperta più di 100 anni fa dai missionari e suore comboniani.
Alle 10 tutto era nuovamente in silenzio dato che le abitazioni della gente del posto sono state costruite a una certa distanza dal terreno della missione, che venne usato dai militari di vari eserciti e infine disseminato di mine. La messa della risurrezione sarebbe stata il giorno successivo in mattinata, e mentre mi abituavo all’idea di non sentire l’exultet e l’alleluia della notte e di non vedere la cerimonia del fuoco, all’improvviso ho sentito in lontananza intonare il canto ‘Risuscitò’, e per di più in lingua inglese. L’evento era così inopinato in quel contesto che per me ha veramente rappresentato l’annuncio pasquale. Se in quei villaggi dove si parla la lingua Shilluk oppure l’arabo e dove da vent’anni la gente non è più abituata a celebrazioni religiose regolari, qualcuno è stato ispirato a cantare ‘Risuscitò’, è veramente un segno della potenza della risurrezione. La melodia è durata pochi minuti ma ciò è bastato a dare un tono diverso alla notte.
La luce del giorno ha invece rivelato in pieno la potenza devastatrice della guerra. La chiesa sembra sia stata il primo obiettivo delle cannonate tirate dal fiume; anche la residenza delle suore è ormai un edificio cadente, e ciò che rimane è probabilmente minato. Della scuola e dei dormitori per ragazzi e ragazze non c’è più nulla eccetto i tracciati delle fondazioni e alcuni mucchi di mattoni che la comunità cristiana ha raccolto dopo la recente ritirata dell’esercito di Khartoum. Lo spazio lasciato vuoto appare particolarmente desolato perchè a causa delle mine non vi è stato ancora ricostruito nulla. Alcuni maestosi alberi di mogano sono sopravvissuti all’abbattimento e testimoniano tempi migliori. Un vecchio arbusto di bouganville produce ancora fiori e fa intuire che intorno agli edifici ci doveva essere anche un giardino.
I cristiani più anziani raccontano con nostalgia del fiorire di molte attività a Lul e ricordano i tempi in cui i primi Shilluk decisero di lasciare il contesto tribale tradizionale per diventare cristiani, rischiando la vita e senz’altro l’isolamento.
La messa di Pasqua è stata celebrata in una ‘cattedrale verde’, definizione scherzosa dal momento che il vescovo ha officiato alla scarsa ombra di alcuni alberi. La gente è arrivata a gruppi dai villaggi, lentamente e in ordine sparso, non più abituata a un orario definito per la preghiera. Persino la grossa campana della chiesa che la domenica mattina presto chiamava i fedeli è scomparsa.
Un catechista che risiede sul posto con la famiglia ha cercato in questi anni di mantenere unita la comunità cristiana, ed è orgoglioso di presentare una fila di mamme che portano i bambini per il battesimo. La prossima parrocchia ad essere riaperta nella diocesi di Malakal sarà Lul, non appena le operazioni di rimozione delle mine antiuomo dai terreni ed edifici verranno completate. Quel giorno, qundo la comunità cristiana si radunerà, sarà un’altra celebrazione pasquale, la vittoria della voglia di vivere su ogni forza negativa.