Numero 4 – Aprile 2021
Per le strade di Brazza (in tempo di case da abitare)
Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi.
(dal libro del profeta Isaia)
Nei giorni scorsi, girando come mio solito (solidità della consuetudine!) nei Centri, c’è un particolare che mi ha profondamente colpito. Un po’ dappertutto, grazie a generose quanto discrete donazioni di amici, è stato possibile Iniziare dei lavori di ristrutturazione di cui le case che accolgono i nostri bambini avevano decisamente bisogno. C’erano gli operai, intenti nelle loro attività, tra mattoni, cemento e legnami, affiancati, spesso, come provetti aiutanti, dai ragazzi più grandi accolti negli Orfanotrofi. Contribuivano a rendere più ‘abitabile’ e più bella la loro casa. Guardando affaccendati i miei adolescenti, anime complesse tormentate, in eterna ricerca, una meraviglia continua ai miei occhi, mi sono venuti alcuni pensieri, che desidero oggi, amici cari, condividere con voi. Il primo. Ciascuno di noi ha bisogno di “fare casa” e di lavorare alla costruzione della propria casa. Lo penso vero per me, sradicata e radicata con radici capaci di percorrere l’impensabile distanza da casa a casa, dall’Italia al Congo. E lo sento vero per i bambini, alla ricerca di quella casa, la loro, che non è solo né tanto mura e tetto (pur benedetti e necessari!), ma soprattutto affetto, presenza, riconoscimento, luogo del cuore in cui sentirsi accolti, ascoltati, desiderati. Porto sicuro nel quale approdare, dal quale prendere il largo e al quale potere, nei giorni di quiete come di tempesta, fare ritorno. Certi che si sarà sempre ‘aspettati’, di un’attesa che è e rimane la più grande dichiarazione d’amore possibile.
Il secondo. Che una casa ha senso quando viene abitata. Ché sono le persone, con le loro storie, le loro incerte bellezze, le loro andate e ritorni, i loro non sempre intelligibili rapporti, a dare alla casa il suo nome. Il profumo ordinario del desco, i cento e uno gesti che si ripetono, come la più preziosa e rassicurante delle consuetudini: il bucato da mettere sul filo, i letti da rifare…e chi pensa alla cena? Li accompagni tu i bambini? C’è la visita medica di controllo…Venite, che giochiamo insieme…Non piangere, succede…Stai qui, vicino a me, che ti racconto… L’arte antica e mai scoperta fino in fondo e mai apprezzata come dovremmo, del fare ‘famiglia’. Luogo delle comprese incomprensioni, del lungo ritorno, dei sogni affidati al vento, dell’amore che può essere sempre e malgrado tutto. Del conforto di sapere che c’è. Che c’è un posto solo per me, che nell’intreccio di relazioni che vi si consumano, nulla sarebbe lo stesso, se io non ci fossi. Il terzo. Una casa non si costruisce né si ripara da soli. In questi giorni, anche questo è uno dei compiti che mi spetta, supervisionando i lavori di ristrutturazione insieme ai responsabili, mi sono resa conto di quante ‘competenze’ e persone diverse siano necessarie per far sì che una casa sia solida, sicura, accogliente, abitabile, per l’appunto. Il muratore, il fabbro, il falegname, l’elettricista, l’idraulico, l’imbianchino…Tutti all’opera in vista di un unico obiettivo.
E così, inevitabilmente, mi è venuto di pensare al mio lavoro qui e al ‘lavoro’ dei responsabili dei Centri, mamme e papà di tanti bambini. L’impresa, continuo a crederlo, più preziosa, delicata e sorprendente cui si possa essere chiamati nella vita, quella di essere genitori (e come si genera non è solo questione di carne, ma soprattutto di cuore, di vita condivisa nella meraviglia dell’ordinario, di apprensioni, di speranze, di gesti semplici, di ascolto, di intimi desideri di bene, che vanno al di là di noi). Forse a noi, quaggiù, ma mi viene da dire, a ciascuno, ovunque si trovi, non sarà mai chiesto di costruire o ristrutturare materialmente una casa. Ma certo di “fare casa”, di essere la “casa” per qualcuno che non ce l’ha mai avuta, che l’ha solo immaginata, che poco sa che cosa significhi esserne parte o che l’ha vista distrutta e ha dovuto fuggirne prendendone con sé pochi brandelli di ricordi.
Una casa ‘rotta’ si può riparare. Ma come si ricostruisce un cuore rotto, ferito, disarmato, impaurito, confuso, apparentemente senza più appigli?
Guardo ai bambini e, con un poco più di vigile tenerezza, ai grandi e mi sale una strana commozione. Non solo perché penso a quante volte, nel corso della mia storia e del mio camminare al loro fianco, hanno, forse non sempre consapevolmente, rimesso insieme, come un miracolo, i pezzi della mia vita e ricostruito le brecce della “mia casa”.
Ma anche e soprattutto perché capisco quanto ‘lavoro’ ci voglia per edificare la loro, di casa. E quanto questo non sia possibile da soli. E quanto questo non sia possibile e ognuno di loro (ciascuno di noi!) non decida di far entrare l’altro nel proprio percorso, nel proprio giardino, tra le proprie fondamenta e, spesso, tra le proprie macerie. Mi rendo conto di quanto coraggio richieda, per loro (per ognuno di noi!), permetterci di entrare nelle loro stanze, talora tra il loro ‘disordine’ e la loro ‘confusione’, più ancora tra la loro aspirazione, la loro lotta, il loro desiderio di avere fondamenta solide, radici sicure, stanze da abitare e in cui accogliere e far germogliare la vita propria e altrui. Perché, talvolta, abitare e far abitare i propri deserti può fare paura, ma ancora di più può farlo il credere che un’oasi riesca, un giorno, a spuntare in mezzo al deserto. È questo che mi commuove, mi dà forza e un poco mi spaventa del mio, del nostro lavoro. Entrare in contatto, condividere la ricostruzione, abitare un “cuore”, una casa ‘rotta’ o in via di edificazione, rimane per me, il più prezioso dei compiti, delle sfide, delle responsabilità. Ci vuole così tanta umiltà, così tanta pazienza, così tanto silenzio, così tanta ferma delicatezza. E così tanta libertà. La libertà che si accorda e ci si accorda nell’essere semplici collaboratori degli unici architetti protagonisti della propria dimora e del proprio avvenire, che rimangono sempre loro, i bambini e i ragazzi. Rimango convinta che non esista onore più grande e più grande ringraziamento del vedere un bambino divenire un uomo. E un uomo finalmente felice. E rimango parimenti convinta che questo compito arduo si compia solo attraverso un cammino condiviso, in cui i saperi si incontrano, le occasioni si moltiplicano e si mettono a disposizione, in cui ci si riconosce, si assume la sfida e, talvolta, si accetta di non avere una soluzione immediata, si impara a stare docilmente nelle domande e ci si sa anche mettere da parte, in complice, speranzosa attesa. E si aspetta. E si rispetta. E si rimane. Perché salvarci, ci salveremo solo insieme, su uno scoglio di buona speranza, su un tetto da cui poter vedere più in là, in stanze ricche solo dell’amore che avremo saputo regalarci, con abbondanza di spreco. Così, penso, le mie, le nostre brecce, le brecce dei nostri bambini potranno essere riparate. Così, allora, avremo ‘case’ pronte per essere abitate.
Per voi, amici cari, che posate mattoni e fate spazio e portate luce tra di noi e insieme a noi, sia questo l’augurio, scomodo e vero, del quotidiano: possiate divenire riparatori di brecce, restauratori di case in rovina per abitarvi.
Luoghi in cui accogliere, da cui ricevere nuovo vigore per ripartire, a cui, ogni giorno, non importa come né da dove, poter ritornare.
Siate ‘casa’, sappiate fare ‘casa’, con chi vista accanto, con chi amate, con chi custodite. E anche con chi non conoscete, con chi non ce la fa, con chi forse “una casa” ancora non la possiede, ma certamente ce l’ha nel cuore.
Con l’affetto di sempre,
Paola Passera e i bambini di “Brazza” – FOCSIV – Amici dei bambini e delle mamme di Makoua – Brazzaville